Non profit

Davvero al sociale non servono le logiche “aziendalistiche”?

Fermo restando che il sociale ha logiche proprie, davvero non possiamo apprendere proprio nulla da alcune aziende profit? Davvero processi e strumenti di origine profit che possono renderci più efficaci ed efficienti sono così lontani dalla nostra missione? Io credo di no

di Christian Elevati

Recentemente Fabrizio Floris ha sollevato un tema che ricorre frequentemente anche nella mia esperienza di consulente: il rischio, per chi lavora nel sociale, di perdere col tempo l’idealità, la vicinanza alle persone e l’autentica passione solidaristica. Floris sembra attribuire in buona parte questa conseguenza alle Fondazioni (cita in particolare quelle di origine bancaria), ree di avere introdotto la cultura aziendale e di mercato in un settore dove entrano in gioco altre logiche. In un passaggio in particolare parla di “colonizzazione del sociale in termini di pratiche, modelli, processi”. E aggiunge: “tutte le figure professionali del sociale (operatori, educatori, psicologi…) stanno diventando project manager e i progetti prodotti da vendere”. In questo modo si finisce per “premiare più la forma della sostanza”. Il sociale ha infatti altri fini e modalità di intervento: il suo obiettivo non sarebbe eccellere, ma diventare inutile; stare dalla parte delle persone, cambiare la società e non stare dalla parte dei finanziamenti.

La prima reazione che l’articolo di Floris mi ha suscitato è stata di comunanza. Anche nel mio lavoro lotto quotidianamente per rimettere al centro il senso di quello che facciamo, riattivando a livello organizzativo e individuale quelle motivazioni e quel pensiero critico, quell’idealità e quella visione che hanno spinto molti di noi a impegnarsi in questo settore, spesso a prezzo di grandi sacrifici personali. Un altro dei temi su cui torno costantemente è la sudditanza ai bandi, che finisce in molti casi per snaturare la missione degli Ets trasformandoli in progettifici, dove gli operatori corrono senza sosta come “criceti nella ruota” bando-progetto-bando-progetto…

L’articolo citato ha però sollevato anche una serie di dubbi e alcune riflessioni che vorrei condividere. La prima: perché usare il termine “professionalizzazione” con un’accezione negativa se collegata alle abilità di project management? Lavoriamo in contesti estremamente complessi e più sono “ultimi gli ultimi”, più le cause dell’esclusione sono complicate e multilivello, più occorrono competenze integrate e multidisciplinari per abitare questa complessità. In un percorso che ci renda sempre più capaci di “diventare inutili”, ci possono stare benissimo competenze di project design, management ed evaluation. Sono più di 22 anni che lavoro nel sociale e ho visto project manager (PM da qui in avanti) competenti affrontare e superare crisi molto complesse, per il bene delle persone; e ho visto anche PM incompetenti fare danni indescrivibili, ma “con le migliori intenzioni” e mossi dal fuoco sacro della vocazione. In conclusione, fra il PM che si limita letteralmente a scrivere e a gestire progetti come un robot e l’anima bella, competente in qualche ambito (psicologia, antropologia, economia, pedagogia, medicina… ) ma incompetente nell’ideare e gestire progetti, credo che vi possa essere una sana via di mezzo. Detto ancora più direttamente: professionalizzarsi nella scrittura, nella gestione e nella valutazione dei progetti non significa di per sé allontanarsi dalle persone. E nemmeno, in alternativa, creare dei team nei quali noi mettiamo le nostre competenze specifiche (in psicologia, economia ecc.) e un PM esperto ci affianca con le sue. Basta non confondere i mezzi con i fini.

La seconda riflessione riguarda un’altra espressione usata da Floris: ma davvero le “pratiche aziendalistiche” sono qualcosa di negativo a prescindere? Fermo restando che il sociale ha logiche proprie, davvero non possiamo apprendere proprio nulla da alcune aziende profit? Davvero processi e strumenti di origine profit che possono renderci più efficaci ed efficienti sono così lontani dalla nostra missione? Io credo di no. E lo credo sia per esperienza personale sia perché vi è ormai ampia letteratura che ragiona per funzionamento organizzativo a prescindere dalla tipologia di organizzazione (profit o non profit). Sto dicendo dunque che aziende profit e non profit sono uguali? Ovviamente no! Lasciando stare per il momento tutte quelle realtà ibride che caratterizzano sempre più la nostra attualità (le “imprese sociali”, le B-Corp ecc.), credo al contrario che le organizzazioni, essendo composte tutte di persone, possano apprendere le une dalle altre, a determinate condizioni. Questo significa, naturalmente, che anche le aziende profit hanno da imparare dal Terzo Settore. Che poi non è niente di diverso da quello che Floris definisce “sapere essere aziendali E sociali”.

Terza riflessione: Floris ha ragione quando sottolinea che le Fondazioni hanno una forte responsabilità nell’orientare le strategie del Terzo Settore. Più sono grandi e investono risorse, più possono influenzarlo. Ma davvero il Terzo Settore può quindi chiamarsi fuori da ogni responsabilità? Anche qui, io credo di no. In particolare, chi guida le nostre organizzazioni ne ha almeno altrettanta. Lasciare che siano solo i bandi a guidare la nostra direzione e le nostre priorità è una scelta precisa, non un obbligo. Trovare il migliore punto di incontro fra la nostra missione e le linee guida di un bando è possibile. A patto che – come Consigli Direttivi, Presidenti, Direttori, Responsabili d’Area ecc. – teniamo la “barra a dritta” sulla ragione per cui esistiamo. Prima una missione forte, caratterizzante, che parla della nostra storia e della società in cui crediamo, dei nostri obiettivi prioritari e dei nostri valori, e solo dopo i bandi, come mezzo per dare nutrimento alle nostre strategie e alla nostra presenza. Non so se l’alternativa al bando sia un rating delle organizzazione del Terzo Settore da parte delle Fondazioni (come propone Floris), ma il tema è certamente interessante e da approfondire. Personalmente preferisco ragionare in termini di partnership fra finanziatore e finanziato, consapevole che questo obbliga entrambi a uscire dalla rispettiva autoreferenzialità.

E concludo: possiamo imparare anche dalle Fondazioni? Io credo di sì. Non tutte le Fondazioni sono uguali. Molte ci mettono a disposizione un patrimonio di sapere, ricerca, strumenti, risorse, proposte che, unito alla “barra a dritta” di cui sopra, può farci crescere notevolmente, alimentando proprio quell’ “essere parte attiva di una catena vitale che stringe mani che lavorano e, lavorando, trasformano il mondo”, che giustamente Floris sottolinea come imprescindibile per il “sociale”.

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