Non profit

Le Fondazioni? Non riducano gli operatori sociali a venditori di progetti

Il rischio è di premiare sempre più la forma e sempre meno la sostanza: ad esempio nelle scuole di periferia sono arrivate le famose lavagne multimediali, ma l’unico scopo “didattico” che hanno finora svolto è consistito nel far vedere ai bambini i cartoni animati durante l’intervallo

di Fabrizio Floris

La brutta annata sui mercati finanziari si può leggere anche nei bilanci delle principali, e più grandi, Fondazioni italiane (quelle nate nel 1990 a seguito della cosiddetta legge Amato). I dati ufficiali arriveranno il 16 luglio, ma le tendenze negative sono già evidenti. Nel complesso le 86 Fondazioni riunite sotto la compagine dell’Acri vedranno ridursi il risultato di esercizio di un terzo, tuttavia questo non ha ridotto le donazioni ai territori che anzi sono aumentate del 7%, almeno stando ai bilanci delle prime sette (Cariplo, Compagnia di San Paolo, Caripadova, Fondazione CRT, Carifirenze, Cariverona, Fondazione Roma) in totale 628 milioni erogati rispetto ai 586 del 2017: un contributo economico importantissimo al welfare italiano.

Le Fondazioni fin dalla loro nascita hanno portato con sé anche una mentalità aziendale e il personale che nel 1990 stava dentro le banche. La conseguenza è stata una crescente competizione, razionalizzazione e professionalizzazione del Terzo Settore. I bandi competitivi negli ambiti della cultura, della formazione, della ricerca scientifica hanno fatto nascere e crescere ottime iniziative impensabili con le sole risorse del pubblico e soprattutto perché hanno selezionato “i migliori”. Diversa è la situazione del sociale dove al contrario si tratterebbe di cercare e sostenere “i peggiori” (i Comuni senza personale amministrativo, le associazioni senza progettisti e personale capace di scrivere progetti, gli enti e i luoghi dimenticati, tutti quelli che non sanno né leggere, né scrivere un bando, né vogliono).

Il sociale non può essere trattato come un settore merceologico i cui prodotti sono da vendere, da spingere e i clienti da fidelizzare. Al contrario si lavora per diventare inutili, per allontanare le persone perché in grado di camminare con le proprie gambe.

Il sociale non è un mercato semplicemente perché non ha clienti che sono in grado di pagare, interviene un soggetto terzo (lo Stato, il volontariato, un ente benefattore) che paga per il beneficiario. Una notte al dormitorio non è gratis costa 20€, un pasto alla mensa della caritas 5€, il caffè al centro diurno 1€, la colazione dalle suore 3€. Per rendere il sociale un mercato bisognerebbe restituire alle persone questa capacità di spesa perché siano effettivamente clienti (come negli aiuti non condizionati). In quel caso si vedrebbe quali scelte fanno le persone e quali servizi premiano.

Il secondo tema è come scegliere, tra i tanti enti che lavorano in ambito sociale, qui l’indicazione è una sola: quelli che hanno il desiderio di servire gli altri e quelli che non ce l’hanno.

Terzo, l’operatore sociale non è una professione e come un corazziere non può essere alto 1 metro e 50, così chi si impegna nel sociale deve avere la vocazione e il desiderio di stare dalla parte delle persone, scendere (non salire) nella polvere delle strade, lasciarsi alle spalle il manto del sapere, vivere al ritmo della gente, giorno per giorno, ora per ora, vita per vita, essere parte attiva di una catena vitale che stringe mani che lavorano e, lavorando, trasformano il mondo: in questo non c’è calcolo. E la vocazione non è fare questo o quel progetto, ma cambiare la società. Non ci sono obiettivi di budget, di risultato, di vendita come nelle banche e non può esserci neanche la stessa logica: si è ragionevoli non razionali. Infatti, non si può applicare la stessa “regola” tra i settori che cercano l’eccellenza, e il settore (il sociale) che cerca il “fallimento” (di diventare inutile). Non si possono misurare gli esclusi con i parametri degli integrati, i migliori, con i peggiori, gli analfabeti con i laureati. Tuttavia, i modelli di finanziamento imposti dalle principali Fondazioni rischiano di essere portatori di una sorta di colonizzazione del sociale in termini di pratiche, modelli, processi. Infatti, tutte le figure professionali del sociale (operatori, educatori, psicologi…) stanno diventando project manager e i progetti prodotti da vendere.

Il rischio è di premiare sempre più la forma e sempre meno la sostanza ad esempio nelle scuole di periferia sono arrivate le famose lavagne multimediali, ma l’unico scopo “didattico” che hanno finora svolto è consistito nel far vedere ai bambini i cartoni animati durante l’intervallo: la scuola ha gli strumenti avanzati, ma in sostanza sono addirittura controproducenti perché evitano che i bambini facciano l’esperienza dei giochi in cortile.

Il sociale è in sintesi stare dalla parte della gente, ma le pratiche aziendalistiche hanno introdotto persone ed enti che hanno acquisito capacità di response set, di linguaggio, di scrittura, non per essere dalla parte della gente, ma dei finanziamenti.

Le Fondazioni dovrebbero andare a cercare gli enti, visitare i territori, stilarne un rating (come Fitch…) e finanziarli: sapere essere aziendali e sociali. Non sono in gioco solo i bilanci, ma il futuro della società italiana impegnata nel sociale.


In foto la sede della Compagnia di San Paolo di Torino

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