Non profit
La comunità educante? È più larga del partenariato (e le organizzazioni devono vincere la diffidenza)
Con i Bambini pubblica le "Linee guida per la progettazione sulla prima infanzia", frutto dell'accompagnamento agli 80 progetti del primo bando sperimentale. Le maggiori difficoltà? Creare davvero la comunità educante e agganciare le famiglie più marginali, che spesso vivono isolate. Intervista a Alessandro Martina
Il bando Prima Infanzia di Con i Bambini ha segnato il debutto del fondo di contrasto alla povertà educativa. C’era stata una “stranezza”, all’epoca del bando: quello per la Prima Infanzia aveva più risorse rispetto a quello destinato all’adolescenza, ma le proposte arrivate furono la metà, come se sulla fascia zero-sei l'Italia avesse meno esperienza e meno idee. Un anno e mezzo dopo, con gli 80 progetti avviati, Con i Bambini pubblica le “Linee guida per la progettazione sulla prima infanzia”, frutto degli incontri di accompagnamento ai progetti stessi, voluti per favorire la condivisione di metodi, strumenti e buone pratiche tra gli operatori e per arrivare a definire elementi utili per il contrasto alla povertà educativa minorile. Ne parliamo con Alessandro Martina, Coordinatore delle Attività Istituzionali presso Con i Bambini.
L’ambizione del fondo sperimentale Con i Bambini quella di riuscire a individuare dei punti fermi su cosa funziona e cosa no nell’approccio alla povertà educativa. Per quello ovviamente aspettiamo le valutazioni di impatto, ma queste Linee Guida che cosa già ci dicono?
Le Linee guida non hanno la pretesa di dire “un progetto per la prima infanzia deve essere impostato così e così”, ma di fornire un feedback sui punti cruciali che noi abbiamo chiesto nella progettazione, quali sono state le maggiori criticità e quali le soluzioni adottate. Si vuole dare un “indirizzario” delle criticità che riscontrate e delle soluzioni maturate o messe in campo. Questo documento infatti da cosa nasce? Dagli incontri che abbiamo fatto con tutti i soggetti coinvolti negli 80 progetti del primo bando: il punto di vista riportato in questo senso è parziale ma rispetta da Nord a Sud le esperienze fatte sia in fase di progettazione che di realizzazione.
Un tema che avete messo a fuoco con forza è quello della comunità educante. Quando il fondo è nato, non si sapeva neanche bene cosa fosse la comunità educante… Adesso?
È vero, capire cos’era la comunità educante è stata la prima, forte criticità. Abbiamo voluto concentrarci proprio sul dare una definizione condivisa e la parola che ha sintetizzato i ragionamenti fatti è “villaggio”, la metafora del villaggio. La comunità educante è un insieme di soggetti che possono contribuire insieme al percorso di accompagnamento e di crescita dei minori: la comunità educante non è il partenariato di progetto ma deve andare al di là di esso, coinvolgere le famiglie, la scuola, tanti altri soggetti di Terzo settore ma anche del pubblico e del profit. Quindi una criticità è stata proprio capire cos’è, dove andarla a cercare, chi coinvolgere. Fra le organizzazioni abbiamo riscontrato spesso una certa diffidenza verso chi non si conosce, un senso di autoreferenzialità, una visione limitata al proprio orticello, chiusa nei confronti di altri soggetti che affrontano lo stesso problema ma con cui non ci si è sei mai confrontati prima. E anche una certa paura del cambiamento, perché le organizzazioni spesso tendono a chiudersi e a fare quello che già sanno fare e fanno da anni. Vedere qualcuno che propone di fare attività nuove, spaventa. C’è reticenza ad accogliere queste novità.
Lei ha parlato di criticità e soluzioni: quali sono quindi le indicazioni operative emerse?
Quella di creare occasioni informali per entrare in contatto con questi soggetti e aprirsi al dialogo, fare rete. Rete è la chiave lettura per tante problematiche. Un degli elementi che a distanza di tempo risulta più apprezzato dalle organizzazioni è il fatto che abbiamo chiesto che i progetti fossero presentati da un partenariato. E i più apprezzati sono i partenariati eterogenei fra loro, non solo per forme giuridiche ma in termini di competenze: è importantissimo poiché essendo la povertà educativa multidimensionale, è necessario avere un approccio multilivello, mettere insieme competenze diverse e punti di vista diversi… questo i sta rivelando davvero un punto di forza.
Parlando di bambini 0-6 anni, qual è il ruolo della famiglia?
È uno dei destinatari privilegiati. Gli interventi spesso sono su situazioni limite, di estremo svantaggio economico, spesso in zone ad alta densità criminale, con famiglie monoparentali, che hanno difficoltà ad accedere ai servizi, spesso anzi non sanno nemmeno dell’esistenza dei servizi. Sono nuclei con un grande senso di isolamento, disorientati, inesperti… è evidente che la povertà educativa non si affronta solo partendo dal minore ma allargando l’intervento a tutto il nucleo famigliare. Si cerca innanzitutto di ampliare la conoscenza dei punti di riferimento, far sì che sappiano almeno a chi rivolgersi, sapere che esistono punti a cui rivolgersi in caso di difficoltà: questa è una prima grossa vittoria. Abbiamo puntato sull’integrazione con i servizi: in molte regioni del Nord il problema non è l’assenza di servizi ma lo slegamento di essi… ad esempio con il potenziamento degli orari dell’offerta educativa con attività che non siano di “parcheggio” mattutino, ma arricchento per il bambino. Detto questo, ovviamente i progetti hanno molto spaiato, non si sono limitati solo alla presa in carico – noi non la intendiamo con il linguaggio dei servizi sociali, ma più blanda, come offerte di servizi e opportunità – e per farlo bisogna coinvolgere tutto ciò che ruota attorno al nucleo famigliare, compreso il coinvolgimento del profit che ha messo competenza a disposizione del progetto.
Un tema molto approfondito nelle linee guida è quello del come “agganciare” queste famiglie…
Agganciare questi nuclei che vivono una situazione di estrema marginalità, che vivono in una sorta di isolamento, sconosciute spesso ai servizi è necessario puntare tantissimo sulla comunicazione, attraverso la scuola, la parrocchia, i canali informali, ma soprattutto attraverso delle “antenne” sul territorio che conoscono le singole situazioni. Molto efficaci sono i momenti e gli spazi di aggregazione informale come le cene solidali o le feste con i bambini, momenti ludici e ricreativi in piazze o oratori… con una dimensione ludica: nella risulta più efficace per far conoscere il progetto del creare occasioni di “prova assaggio” del progetto stesso. La comunicazione è un’azione purtroppo sottovalutata: si tende a fare una divulgazione un po’ fine a se stessa, la “pubblicità” del progetto con i depliant. Invece serve una strutturazione più ramificata della comunicazione, anche di quella interna al partenariato: penso ai progetti su più regioni, magari un partner in una regione ha già affrontato un tema che per un altro partner, in un’altra regione, è assolutamente nuovo.
PS. L'attenzione di Con i Bambini all'attuazione dei progetti è tale che sia nel consiglio di ammnistrazione di fine gennaio sia in quello di fine febbraio, sono stati revocati contributi a progetti. Tre nel complesso, sostanzialmente per «profonde e non sanabili modifiche intervenute nella struttura dei progetti stessi (in particolare significative variazioni nella composizione dei partenariati)», per un valore totale di 2.270.000 euro che saranno ricollocati nei prossimi bandi. È invece aperta fino alle ore 13.00 del 18 marzo 2019 la possibilità di inviare una manifestazione di interesse per candidarsi nell'elenco dei valutatori che accompagneranno nella valutazione di impatto i progetti che saranno ammessi alla II fase del Bando “Un passo avanti”.
Photo by Hamza El-Falah on Unsplash
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