Cultura

Leggere è come lottare

Esistono libri scomodi. Libri che tagliano l'attualità e impongono di fermarsi. Sono i libri che dobbiamo leggere, per capire e per agire

di Pietro Piro

Recentemente ho avuto la fortuna di leggere dei libri scomodi. Spigolosi. Libri che molto probabilmente non troveremo mai presenti in nessuna classifica. Libri che richiedono impegno per essere letti ma che, a fine lettura, ti suggeriscono una visione più approfondita e netta della realtà in cui viviamo. E mi rendo conto, proprio per la difficoltà e lo sforzo che questi libri mi hanno richiesto, che si possono scrivere, vendere e diffondere libri il cui unico scopo è nutrire il conformismo, alimentare il gossip, deformare la realtà, celebrare il potere, riempire le casse dell'industria culturale.

Ricordo quel passaggio folgorante di Gilles Deleuze quando attaccava i "nuovi filosofi" rimproverandoli di aver introdotto il il marketing letterario e filosofico: "Bisogna che si parli di un libro (e che se ne faccia parlare) più di quanto il libro parli o abbia da dire di per sé. Al limite, è necessario che la moltitudine di articoli di giornale, interviste, colloqui, trasmissioni radiotelevisive rimpiazzi completamente il libro, che a quel punto potrebbe benissimo non esistere affatto".

I libri che ho avuto la fortuna di leggere invece, sono frutto di paziente studio, lavoro di partecipazione fisica, mentale ed emotiva. Libri di cui abbiamo molto bisogno oggi per costruire un immagine non conformista della realtà che non restituisca solo il grande rumore di fondo del mondo. Ne suggerisco la lettura, sperando di trovare "lettori vivi" che possano rispondere a questo silenzioso appello per una lettura che sia allo stesso tempo desiderio di cultura e strumento di lotta.

La comunità postsociale

ll primo libro è La Comunità postsociale. Azione e pensiero politico di Martin Buber di Francesco Ferrari ( Castelvecchi, 2018). Il libro affronta le tappe della biografia e del pensiero di Buber: la sua idea di sionismo; il rapporto di stima-ammirazione per Gustav Landauer; la condanna del comunismo sovietico; l'opposizione di buberiana al nazionalsocialismo; la necessità della riconciliazione.

Al centro del volume c'è il tentativo di Ferrari di ricostruire le idee politiche di Buber intorno al concetto di comunità post-sociale. Secondo Ferrari Buber percepisce la crescente solitudine e incapacità relazionale dell’uomo, da lui posta in stretto legame con l’incremento di potere dello Stato-nazione e dell’economia capitalistica. A un tale sviluppo, egli contrappone una voglia di comunità e una concezione di un’individualità responsabile nella sfera sociale: particolarmenteurgente è, per lui, porre un’alternativa alla società di massa, attraverso il decentramento e la costruzione di nuove comunità su base volontaria. (p. 8) I motivi fondamentali della filosofia sociale buberiana comprendono il rinnovamento dell’uomo e dell’interumano ( Zwischenmenschliche), in continuità con la concezione landaueriana di un “inizio socialista” di un “uomo a venire”, e quindi concetti come “legame” e “comunità”. L’individuo viene determinato come una personalità socialmente responsabile posta in un intreccio di relazioni personali e di sistemi sociali. Contrapponendosi a chi sostiene l’antitesi tra il carattere comunitario dell’uomo e la sua individualità, Buber qualifica l’uomo come un essere essenzialmente sociale, il cui Io sociale prende forma attraverso la comunità. Così, egli comprende la vita comunitaria e dialogica come una terza via a individualismo e collettivismo, da lui concepiti come ostacoli alle relazioni inter umane e a quel summenzionato carattere comunitario. (p. 9).

Buber è profondamente persuaso dell’esistenza di una nostalgia di comunità, intendendo con essa l’unione che sorge da una condivisione vitale e non basata su meri interessi. Laddove egli descrive la comunità come fondata sulla libera volontà, sulla reciprocità e sull’affinità elettiva, e quindi sull’immediatezza delle relazioni interpersonali, considera invece la società come un accumulo di uomini massificati, uniti soltanto da scopi estemporanei. Attraverso l’auspicio di una “comunità postsociale” egli esprime l’urgenza di un rinnovamento dell’umano, il cui inizio può aver luogo,secondo lui, solamente attraverso uno scambio reciproco di esperienze condivise. In una sintesi del suo anarchismo cooperativo-federativo-comunitario e della sua religiosità ebraica, è necessaria anzitutto la rinascita di un ebraismo cosciente di sé: in altre parole, egli auspica il trasformarsi del sionismo, affrancandolo dalle proprie componenti nazionalistiche di matrice europea, in un “umanesimo ebraico”. (p. 9). Ferrari mette in evidenza l'importanza che ha per Buber la sfiducia tra gli uomini.

Cita Buber a tal prosposito: "La sfiducia fondamentale, scrive Buber, è il segno distintivo del tempo presente. Il futuro dell’umanità dipende dalla ripresa e dalla riscoperta del dialogo autentico. Undialogo autentico richiede uomini che abbiano “superato la sfiducia a priori in sé stessi, e devono essere capaci di riconoscere il loro compagno di dialogo nella realtà della sua essenza”. Costoro, cui è affidata la speranza del filosofo, non parlano solamente a loro nome, ma sono invece persone indipendenti,senza alcun potere eccetto quello dello spirito.Non rappresentano una singola posizione politica, ma pensano e agiscono a livello globale, e formano così il fronte trasversale dell’ Homo Humanus. (P. 101). La vera comunità non nasce dal fatto che le persone nutrono sentimenti reciproci (anche se non senza questi), ma da queste due cose: che tutti siano in reciproca relazione con un centro vivente e che siano tra loro in una vivente relazione reciproca.[…] La comunità si costruisce a partire dalla vivente relazione reciproca, ma il costruttore è l’operante centro vivente. […] I raggi che da tutti i punti dell’io convergono al centro costruiscono un cerchio. Prima non è la periferia, la comunità, primi sono i raggi, primo è il fatto che la relazione ha in comune una tensione verso il centro. Soltanto questo garantisce l’esistenza autentica della comunità. (p. 104).

Ferrara coclude il suo volume citando ancora Buber: "Basandosi sul principio dell’affinità elettiva, la Nuova Comunità si contrappone tanto a una comunità originaria (Urgemeinschaft) fondata sulla comunanza di sangue, quanto all’anonimo asservimento del singolo all’interno degli ingranaggi della società. Ciò che importa è la vita, intesa come possibilità di creazione sempre a-venire. In essa, dichiara enfaticamente Buber, “l’umanità, proveniente da una comunità originaria ottusa e carente di bellezza, passata attraverso la crescente schiavitù della “società”, giungerà a una Nuova Comunità, che non è più fondata sulla affinità di sangue ( Blutsverwandtschaft), bensì sull’affinità elettiva ( Wahlverwandtschaft)” (p. 106).

Il lato oscuro delle Onlus

Il secondo libro è Viaggio al termine delle onlus. Diario di uno sfruttamento di Zoe Vicentini (Meltemi, 2018). Un inchiesta sociale vissuta in prima persona.Vicentini si fa "assumere" in una onlus nel ruolo di addetta alla raccolta fondi – dialogatrice – e da studiosa infiltrata osserva, prende appunti, registra conversazioni, studia atteggiamenti e dinamiche di gruppo. Si ritroverà a vivere per mesiin un ambiente in cui "cinismo, risentimento e obbedienza ma anche frammentazione e solitudine" (p. 140) dominano la vita di ragazzi alle prime esperienze lavorative. Giovani alla ricerca di un posto di lavoro che permetta autonomia e crescita personale e che si ritrovano, invece, in situazioni paradossali gestite da solerti manipolatori. Manipolatori che attraverso le tecniche della PNL e della psicologia motivazionale spingono continuamente a dare il meglio in cambio di pochi centesimi.

Scrive Vincenti riguardo agli esiti di questa manipolazione: "si è implicitamente costretti a credere nel Sistema, a introiettarlo in sé e a farlo completamente proprio, pena non guadagnare, dunque non produrre profitto per l’agenzia, dunque non finanziare le opere di bene delle onlus che si promuovono e contribuire a creare un brutto clima, andando a influenzare i propri colleghi con la propria energia negativa" (p. 42). Progressivamente, ma inesorabilmente si entra in una spirale di frustrazione sempre più intensa: "per ammortizzare le probabili perdite, dunque i contratti recessi, i dialogatori si auto costringeranno a far firmare sempre più contratti, aggredendo ma col sorriso sempre più persone, arrivando a lavorare sempre più ore, in una sorta di ansia e paranoia individuale, del dialogatore, e collettiva, dell’agenzia e della onlus" (p. 72). Il rapporto di lavoro appare dunque in questa inchiesta molto ambiguo e fragile: "è possibile cessare la collaborazione lavorativa con l'agenzia in qualsiasi momento e senza obbligo di motivazione, né da parte del lavoratore, né da parte del datore di lavoro, così che tutto appare coperto da una patina dorata che tinge l'intera opera benefica di piena libertà di movimento, sia di arrivo che di partenza, sia di orari che di spostamenti, ricalcando una forma lavorativa autonoma, quando nella realtà ha tutte le caratteristiche di un’attività subordinata, con una o più figure responsabili che controllano se si arriva in orario, e che regolano l’intera attività di vendita e promozione" (p. 78).

Condizione di fragilità che si somma a un più profondo senso di malessere: "Le dinamiche interne all’ufficio, il raggiungimento di obiettivi sempre più alti e difficili uniti alla continua disillusione e sfiducia nelle proprie capacità individuali per non aver firmato abbastanza, per non aver sorriso abbastanza, per non aver guadagnato abbastanza, producono disagio psico-fisico e se da una parte noi aumentiamo sigarette, caffè, Red Bull e Coca cola per restare in piedi, dall’altra il corpo risponde con gastriti aggressive, ansie, sonno, svenimenti e stati depressivi, in quella che forse si potrebbe definire una strategia di resistenza passiva all’autosfruttamento cui noi stessi innanzitutto decidiamo di sottoporci" (p. 88). "L’obiettivo principe del buon dialogatore è lavorare tanto e sempre di più, meritandosi un salario basato sul lavoro effettivamente gratuito che si riesce,a fatica e a caro debito, a mettere in campo" (p. 98). Un buon dialogatore deve essere sempre disposto, anzi felice di indebitarsi con se stesso di tempo, risorse e affetti, nellapromessa di un ritorno futuro, in termini di riconoscimento economico ma anche sociale, come se ci fossero delle particolari condotte da rispettare e riprodurre, come se si riuscisse a fare carriera anche per affiliazione, per contatti informali, per rapporti amicali, legati a doppio filo a interessi economico-personali" (p. 103).

Un'indagine impietosa, feroce e coraggiosa che ci aiuta a comprendere come lo sfruttamento si possa celare dietro abili strategie comunicative. Un inchiesta quella di Vincenti che ricorda che "Indagare come avviene il processo di rottura del vortice del lavoro gratuito e del dono potrebbe rappresentare dunque un affascinante terreno di sperimentazione sia teorica che materiale, immaginando quali forme, e quali pratiche possono rappresentare una o più boccate di ossigeno, a partire innanzitutto dalla riappropriazione collettiva di quel lavoro vivo, astratto, relazionale e affettivo che è tra i primi doni inconsapevoli che il dialogatore fa al proprio leader" (p. 143).

I libri sono ponti ostinati: uniscono, creano legami

Giuseppe Avigliano

Prendere le case

Il terzo è Prendere le case. Fantasmi del sindacalismo in una città ribelle di Pietro Saitta, Ombre Corte, Verona 2018. Uno studio etnografico sull’incontro tra il movimento politico e la popolazione dei “margini”, uniti dalla lotta per il soddisfacimento dei bisogni primari e per la casa. Il sociologo Saitta attraverso lo studio di un sindacato autonomo dedito alla lotta per la casa prova a dare voce ai bisogni di: "una popolazione composta da lavoratori poveri, stagionali e precari, occupati per lo più in edilizia o in servizi di bassa qualifica; esposti a pratiche locali, alcune delle quali egualmente diffuse nel privato così come nel pubblico, consistenti in ritardi indefiniti nell’erogazione dei salari, nelle assunzioni irregolari se non del tutto in nero, oppure nel mancato versamento dei contributi.

Con nuclei familiari, inoltre, che appaiono spesso monoreddito, affollati e costretti a vivere in condizioni abitative inadeguate in ragione delle condizioni fisiche delle dimore (anche quelle di edilizia pubblica) e/o dell’esiguità dello spazio a disposizione dei membri. Una popolazione, infine, posta frequentemente dinanzi al dilemma della spesa; quello, cioè, tra il pagarel’affitto di casa oppure onorare altre spese più impellenti (le bollette, il cibo, i vestiti per i bambini, i medicinali)" (p. 8). Una parte di popolazione eternamente esposta alla marginalità: "tanto intrappolata quanto attivamente coinvolta in relazioni clientelari che costituiscono storicamente un tentativo illusorio di arginare la marginalità, dando corso a “politiche personali”, per lo più aliene sia da idealismi sia da interessi di classe, volte a conseguire briciole di benefici legate al miraggio di sussidi, pensioni, o lavoro per sé o per i propri familiari, facilitazioni nell’ottenimento di licenze edilizie, oppure in un mero scambio economico circoscritto al momento elettorale (voti in cambio di denaro, pasta o altri beni di limitato valore) (p. 8).

Eternamente in bilico tra "lavoro e illegalismi, tra attività sotto-retribuite e reati. E che anzi vede talvolta nel crimine un modo di ridurre la disuguaglianza ed effettuare una ridistribuzione, sottraendo ai benestanti per dare a sé". (p. 8).

Quella di Saitta è "una ricerca in cui la dimensione partecipativa e il coinvolgimento diretto dell’autore nella preparazione e nel compimento delle azioni, così come nelle elaborazioni teoriche e tattiche, legate cioè alla scrittura di comunicati e alle relazioni politiche da intrattenere con le controparti istituzionali, sono state prevalenti. [….] un tentativo di produrre una etnografia fondata sull’azione e sul dettaglio" (p. 16). Si impegna direttamente Saitta, in prima persona, esponendosi alle tensioni e alle lacerazioni della lotta politica per poi " produrre uno studio delle mentalità e dei caratteri di questa strampalata armata che naviga a vista nel disagio metropolitano e cerca di trasformare l’anomia e la disorganizzazione in rivendicazione organizzata di diritti elementari. Un’operazione politica virtualmente rilevante, che, tuttavia, si scontra con la resilienza di certe forme mentali, motivazioni, traumi e tensioni che, sistematicamente, limitano o impediscono l’azione" (p. 17).

Saitta si mette a disposizione della sindacalista autonoma Crepax e insieme a lei esplora i meccanismi interni ed esterni delle pratiche di "liberazione" messe in atto. Pratiche che oscillano tra la microfisica del potere e il desiderio di auto-affermazione e che ripropongono attraverso l'"analisi di una sola biografia" il problema di come organizzare la lotta e il malessere in direzione degli obiettivi praticabili di trasformazione dei rapporti sociali (p. 182). Saitta ci regala un esempio coraggioso di etnografia totale, che svela gli anfratti della città meridionale e le difficoltà di una pratica politica antagonista e popolare nella società contemporanea. La "trasparenza del testo" coinvolge il lettore, i suoi protagonisti e il suo autore in un continuo rimando alle pluralità del senso.

Un archivio per la coscienza sociale collettiva

Condivido il giudizio di Massimo Bontempelli quando afferma che "Le letture non si consigliano, se non ai principianti del leggere. Ognuno deve trovare le proprie letture con l’istinto, che – nel lettore abituato – diventa quasi sempre infallibile". Tuttavia, sommersi come siamo da un immenso accumulo di segni, simboli e prodotti culturali – le cui finalità non sono sempre trasparenti – potrebbe essere utile costruire unarchivio per la coscienza sociale collettiva, una risorsa pubblica, gratuita e facilmente accessibile a tutti, dove attingere a fonti ritenute "socialmente rilevanti" che ci permetta di evitare inutili perdite di tempo e la folle corsa dietro ai simulacri.

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