Famiglia
Social Robot: per fidarci di lui, dobbiamo fidarci degli altri
Come ci immaginiamo i robot sociali del prossimo futuro? Quali caratteristiche dovrà avere il robot che deve interagire con gli esseri umani, in particolare nella cura degli anziani? Dall’indagine “Il robot che vorrei” nasce il primo “Tech Care Hackathon” in corso oggi a Roma
1,7 contro 42: basta questo dato a capire come la rivoluzione robotica che ci attende riguarderà non tanto le industrie 4.0 ma le nostre case. Secondo la International Federation of Robotics infatti entro il 2020 entreranno nelle fabbriche di tutto il mondo 1,7 milioni di nuovi robot ma a fronte di essi saranno 42 milioni i robot acquistati per uso domestico o personale. L’impennata verrà dall’health care. Lo scrivevamo già a maggio sul numero “Social Robot”, in cui raccontavamo la robotica sociale come vera sfida della rivoluzione 4.0.
Oggi a Roma è in corso la prima Tech Care Hackathon, la prima sfida etica sulla robotica. Come ci immaginiamo i robot sociali del prossimo futuro? Quali caratteristiche deve avere il robot collaborativo che deve interagire con gli esseri umani? Dall’indagine “Il robot che vorrei” condotta dall’Università Campus Bio-Medico di Roma in collaborazione con la Fondazione Mondo Digitale nasce l’idea del “Tech Care Hackathon”, una maratona di sviluppo e design che coinvolge studenti e ricercatori del Gruppo nazionale di Bioingegneria e della Fondazione Don Carlo Gnocchi, per progettare nuove soluzioni di intelligenza artificiale per l’assistenza degli anziani. L’evento è promosso dalla Fondazione Mondo Digitale, dall’Università Campus Bio-Medico di Roma e dal Gruppo Nazionale di Bioingegneria. Un centinaio di studenti di scuole superiori e università stanno lavorando divisi in 20 team alla realizzazione di soluzioni innovative da proporre dagli anziani: a loro è stato chiesto di coniugare affidabilità tecnica e fiducia morale verso il robot, nella sfida di prendersi cura (take care), migliorare la qualità della vita dei pazienti e di contrastare il senso di solitudine, esclusione e inutilità dell'anziano. D’altronde, come dice Giampaolo Ghilardi, «se ha senso il robot è proprio in questa dimensione, del renderci autonomi quando autonomi non lo siamo più».
Alessio frequenta il V anno IIS Pertini Falcone di via Lentini a Roma, un istituto commerciale che da quest’anno ha un laboratorio di robotica. Insieme ai compagni di classe è al lavoro su un’applicazione molto semplice per le situazioni di emergenza: «pigiando un pulsante si comunica immediatamente con il 118 e si invia ai medici del 118 lo storico clinico dell’anziano. Questo da un lato riduce i tempi di intervento dall’altro quando il paziente arriva di fronte al medico le domande di anamnesi non servono più, perché il medico ha già letto la cartella condivisa, aggiornata dal medico di base. In questo modo è più rapido e evita errori», spiega Alessio. «Vedo che mio padre ha una passione per la carta, fa le fotocopie per essere sicuro che i documenti importanti rimarranno: noi giovani invece apprezziamo l’essere free, se nel telefono abbiamo tutto a che serve la carta? Mi ha colpito il fatto che oggi, dialogando con gli anziani, che erano qui, li ho trovati contenti del fatto di poter condividere immediatamente la loro storia clinica con il 118». Il team di Raffaele invece ha scelto di declinare la sfida di etica e robotica in un altro modo, pensando alla solitudine degli anziani. Lui frequenta il III anno del Liceo scientifico Giovanni Vailati di Genzano e la robotica a scuola non la fanno. «Con la nostra app abbiamo pensato di far incontrare gli anziani dei vari Centri diurni o RSA con i bambini fuori famiglia, vorremmo creare un contatto per dare ai bambini dei nonni e ai nonni l’occasione di sentirsi utili. Ovviamente l’app non verrà usata dai singoli ma dalle due associazioni che avranno dato adesione al progetto e che saranno nelle schermate provincia per provincia. Gli anziani che erano presenti questa mattina erano molto eccitati all’idea».
Giampaolo Ghilardi è ricercatore di filosofia morale all’Istituto di Filosofia dell’Agire scientifico e tecnologico dell’Università Campus bio-medico di Roma. L’hackathon di oggi parte da un’indagine che ha seguito, “Il robot che vorrei”, realizzata dall’Università Campus Bio-Medico di Roma con la collaborazione della Fondazione Mondo Digitale per sondare il rapporto di fiducia tra i nativi digitali e le macchine di nuova generazione. Ai giovani è stato chiesto di individuare caratteristiche hardware e software che dovrebbero possedere ipotetici robot e tecniche abilitanti in diversi ambiti della società e di elaborare raccomandazioni alle aziende per la progettazione di robot che ispirino fiducia. Sono stati coinvolti oltre 1.600 studenti fra maggio e aprile 2018 e i risultati sono in via di pubblicazione.
Robotica sociale e legami di fiducia
A grandi linee l’indagine “Il robot che vorrei” è nata dall’idea di «coinvolgere i giovani, perché tra un decennio saranno loro i fruitori della tecnologia che oggi subiscono. Ci sembrava importante che i giovani avessero voce in capitolo nella progettazione delle tecnologie di cui daranno fruitori, in una logica bottom up, mentre fin’ora la tecnologia è stata disegnata sostanzialmente dai player internazionali». L’Italia ha un primato nella progettazione e produzione di robotica, che va valorizzato, «ma il cambio di paradigma è la robotica sociale che esce dall’industria ed entra in casa, robot per la guida automatica, per l’accompagnamento dell’anziano, i robot avranno costi non più proibitivi, poco meno di uno smartphone, e saranno degli assistenti a tutti gli effetti. La strada è questa». Un’altra premessa che il prof Ghilardi evidenzia è che «la robotica sta cominciando a subire calo di credito, in parte per l’idea distopica per cui i robot tolgono posti di lavoro», comunque «c’è un tema di come costruire fiducia nelle macchine». L’indagine ha chiesto ai ragazzi se si fiderebbero di “appaltare” la cura del nonno anziano a un robot. E se sì, antropomorfo o no? «L’analisi ha fatto emergere che in generale la sfiducia o fiducia nei confronti dei robot è proporzionale all’atteggiamento di fondo verso i propri simili. Anche se poi ci sono delle nicchie di diversità, per cui alla massima sfiducia nell’umano corrisponde una massima fiducia nella macchina. Il messaggio è che per costruire fiducia nella robotica sociale occorre investire nel costruire legami di fiducia interpersonale, che è meno banale di quello che sembra. Occorre aumentare il grado di credibilità di chi progetta le macchine, che non abbiano secondi o terzi fini nell’agenda della progettazione».
Dell’etica e della robotica
La roboetica, per quanto strano possa sembrare ai profani, è una disciplina consolidata, che esiste dal 2008. «I primi temi erano quelli all’eticità di certi algoritmi ad esempio delle macchine autonome», ricorda il prof Ghilardi: «ad esempio se una macchina a guida autonoma investe una persona, chi paga e di chi è la responsabilità? E se devo decidere come la macchina deve comportarsi in una certa situazione, è meglio evitare un anziano o un bambino, un singolo o un gruppo di persone? Tutte domande che l’ingegnere robotico che deve sviluppare l’algoritmo deve porsi». Quello fu l’inizio, oggi la roboetica ragiona sul quotidiano: «robotica ed etica hanno una lunga vita davanti, sempre più strettamente collegata».
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