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Nel campo dove si aiutano i profughi di Boko Haram a superare il trauma

A Flatari, una piana di sabbia sulle rive del Lago Ciad vivono oltre 700 famiglie scappate dal gruppo terroristico. Con l’aiuto di Coopi, l’unica Ong italiana presente sul territorio, cercano faticosamente di ricostruirsi una vita e superare i traumi del conflitto

di Ottavia Spaggiari

«Abbiamo perso tutto. Ma almeno qui c’è la pace». È una frase che si sente ripetere continuamente camminando tra le capanne di paglia del campo profughi di Flatari in Ciad, una piana sabbiosa, poco distante dalle rive del Lago, quasi completamente conquistata dal deserto, dove guadagnarsi qualche centimetro d’ombra è una sfida durissima. Qui, dove gli alberi sono radi e il caldo, anche se siamo solo a marzo, è già insopportabile, negli ultimi quattro anni sono arrivati migliaia di profughi, costretti a fuggire improvvisamente dalle proprie case, con l’arrivo di Boko Haram.

Nel 2014 il gruppo terroristico ha iniziato ad ampliare il proprio raggio d’azione oltre la Nigeria, dov’è nato all’inizio degli anni duemila, arrivando a devastare interi villaggi e uccidere migliaia di abitanti anche in Niger, in Camerun e in Ciad, stravolgendo la vita di circa 10 milioni di persone e costringendo oltre 2.4 milioni a lasciare la propria casa. Una crisi umanitaria tra le più gravi al mondo che ha messo 7 milioni di persone a rischio insicurezza alimentare e 120mila a rischio carestia. Anche se le condizioni di vita a Flatari sono durissime, le persone qui mi dicono di sentirsi al sicuro. Si trovano a pochi chilometri da Bol, un paesino che fino a poco tempo fa contava appena 6mila abitanti ma che negli ultimi quattro anni ha accolto oltre 14mila profughi, proprio perché ancora considerato sicuro dagli attacchi terroristici.

Le circa 5mila persone che oggi vivono a Flatari provengono dai villaggi al confine con il Niger e la Nigeria e dalle isole del Lago, occupate dai terroristi con l’obiettivo di riorganizzarsi per fare fronte alla controffensiva dell’esercito ciadiano.

Ci sono adulti e bambini che hanno visto uccidere membri della famiglia davanti agli occhi, è inevitabile che portino ancora oggi i segni di queste violenze.

Freddy Bigabwa Birheganyi , responsabile dell’assistenza psicologica ai profughi per Coopi

A segnalare l’ingresso nel campo di Flatari un cartello sbiadito indica la zona di interesse umanitario. Accanto al logo del World Food Programme, anche quello di Coopi, l’unica Ong italiana attiva in questa zona dell’Africa, impegnata nella protezione e nell’assistenza psicologica ai profughi.

«Qui c’è gente che ha visto e subìto di tutto», mi spiega Freddy Bigabwa Birheganyi , responsabile dell’assistenza psicologica ai profughi per Coopi. Psicologo clinico, laureato all’Università Simon Kimbangu di Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, Freddy ha una lunga esperienza nel trattamento di vittime di traumi e violenze. «Ci sono adulti e bambini che hanno visto uccidere membri della famiglia davanti agli occhi, è inevitabile che portino ancora oggi i segni di queste violenze», racconta, spiegando il progetto sviluppato da Coopi. «Da un lato facciamo un lavoro di elaborazione del trauma che coinvolge tutta la comunità, attraverso sessioni di counseling individuali e collettive, dall’altro assistiamo i casi più gravi, offrendo un vero e proprio servizio di presa in carico, prescrivendo anche farmaci specifici», spiega, sottolineando il ruolo chiave che hanno svolto i cosiddetti “agenti comunitari”, delle figure interne alla comunità dei profughi che parlano francese e che, oltre a svolgere il ruolo di traduttori per la maggior parte delle persone che parlano esclusivamente le lingue locali, hanno anche una funzione di ponte tra l’Ong e i diversi membri della comunità. «Oltre all’elaborazione del trauma, lavoriamo anche su altri aspetti relativi alla violenza di genere e alla protezione dei bambini», continua Freddy. «Per questo è fondamentale attivare in prima persona i membri della comunità, si tratta di veri e propri cambiamenti culturali e sociali che devono essere compresi e interiorizzati», spiega. «Abbiamo portato avanti un percorso sulla violenza di genere, proprio per aiutare sia gli uomini che le donne a riconoscere i comportamenti violenti. A volte sono le donne stesse che non riconoscono gli abusi come tali, perché hanno vissuto in contesti in cui le dinamiche tra uomo e donna comprendono anche questo. È proprio per questo che bisogna sensibilizzare le persone, prima di tutto».

Bukar Usuman è uno degli “agent protecteur de communité”. Tra i pochissimi qui a parlare francese, Usuman è arrivato a Flatari insieme ai nove figli, alle due mogli e ad altre decine di abitanti del suo villaggio al confine con la Nigeria, per mettersi in salvo dagli attacchi di Boko Haram. «Siamo scappati e una volta arrivati a Flatari qualcuno aveva iniziato a comportarsi in modo strano. Ci sono persone a cui è come se gli si fosse guastato il cuore…», racconta cercando di trovare le parole per raccontare gli stress post-traumatici che hanno stravolto le vite di alcuni nel campo. «Molti di noi non sapevano bene cosa fosse la malattia mentale, le persone avevano paura. Coopi ci sta aiutando a capire», mi dice. «Se qualcuno sta male allora sappiamo che possiamo segnalare il caso all’équipe di psicologi, adesso sappiamo che esiste la presa in carico, grazie a cui i malati possono essere orientati alle cure più adatte. Le persone vengono aiutate. È un passo avanti importante e non è l’unico. Coopi ci sta formando su molti temi di cui prima non parlavamo mai, primo tra tutti quello dei matrimoni precoci». Usuman spiega che insieme alla comunità è stato fatto un percorso di sensibilizzazione proprio su questo e sull’importanza di mandare a scuola sia i bambini che le bambine. «Come agenti di comunità, insieme ai capi-villaggio portiamo avanti anche una funzione di protezione. Se vediamo che ci sono abusi, violenze o situazioni a rischio di matrimoni precoci, allora li segnaliamo».

Anche se un villaggio non ce l’ha più, chi ricopriva il ruolo di capo della comunità a casa propria continua a farlo qui nel campo profughi. «A Flatari convivono quattro etnie diverse. I Pel, i Kanembou, i Boudouma, e gli arabi», continua Usuman. «I capi-villaggio controllano che non ci siano problemi tra le diverse etnie e, in caso di scontri, si confrontano con il capo-cantone».

Sael Saidu ha 56 anni e, a casa sua, al confine con la Nigeria era il capo-villaggio. Oggi, anche se non sa cosa sia rimasto del suo paesino conquistato da Boko Haram, a decine e decine di chilometri di distanza, la sua gente continua a considerarlo una guida. A seguirlo nel lungo esodo che lo ha portato fino a qui, oltre alle due mogli e ai nove figli, anche gli abitanti della sua comunità. «Abbiamo camminato per giorni e giorni», mi racconta sotto il sole rovente di metà mattina. «Ci siamo fermati solo quando abbiamo visto in lontananza le forze armate dell’esercito e abbiamo capito che qui eravamo al sicuro». Lui e la sua comunità sono qui da tre anni. «È una vita dura. La cosa che mi manca di più sono i miei animali. Facevo l’allevatore. Senza di loro non ho più niente», eppure quando gli chiedo se pensa mai di fare ritorno a casa, quando l’emergenza terrorismo sarà cessata, scuote la testa sicuro. «La povertà è terribile, qui dipendiamo dagli aiuti umanitari», continua, «Ma il viaggio fino a qui è stato troppo, troppo faticoso». Si sofferma, sottolineando quel troppo come per cercare di spiegare il peso insopportabile di quei giorni di cammino, senza acqua cibo. «Siamo qui per restare».

È un’intenzione comune tra le persone che vivono a Flatari. «Per molti il campo profughi rappresenta un cambio di prospettiva importante», spiega Freddy, riflettendo sulle facce diverse che questa piana di sabbia assume per i profughi. Per molti un limbo in cui sono stati costretti a trascinare le profondissime ferite lasciate da Boko Haram, per altri un punto da cui ripartire. «Molte di queste persone vivevano in luoghi remoti e isolati. Il fatto di trovarsi per la prima volta vicino ad un altro centro abitato, conoscere persone diverse, avere accesso alla scuola, sono tutte cose che stanno trasformando la direzione della loro vita, soprattutto per i ragazzi più giovani».

Anche Usuman mi dice che mai e poi mai ritornerebbe indietro.

«Qui ci sentiamo sicuri. Anche se non ci fosse più il pericolo terrorismo, non tornerei mai nel mio villaggio. A Flatari c’è una scuola. Noi siamo analfabeti ma adesso i nostri figli stanno imparando.»

Foto: Ottavia Spaggiari

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