Welfare

Fare comunità educante al Sud: la sinergia che ancora manca

Intervista a Pina Casula, portavoce di Crescere al Sud: «C’è ancora una debolezza della comunità educante, un termine anche un po' abusato. Molti credono di fare comunità educante invece fanno un pezzo di lavoro educativo, ma non c’è sinergia con tutti i soggetti. Impensabile non coinvolgere le scuole, anche se non sono ETS»

di Sara De Carli

«La rete è un valore, perché cura. Molti ragazzi hanno una famiglia disgregata che non li supporta, ma se trovano sostegno sia scuola sia fuori dalla scuola, le cose cambiano. Il giovane viene visto da diversi punti di vista, con diversi sguardi, non solo da quello educativo o formativo: c’è la scuola, l’associazione sportiva, le famiglie dei compagni, tutti fanno un pezzo, tante componenti della società si mettono insieme per sostenere chi è più fragile»: Maria Pina Casula, responsabile nazionale delle politiche educative della Uisp, è la portavoce di Crescere al Sud, e ne sintetizza così gli obiettivi. Crescere al Sud è nata nel 2011 come progetto per definire proposte concrete per il cambiamento reale della vita dei minori nel Sud Italia, costruendo strategie comuni sul territorio e promuovendo un piano d’azione condiviso, concentrandosi in particolar modo su povertà minorile, comunità educante, contrasto alla “cultura” dell'illegalità. In questi anni è stato sostenuto da Fondazione Con il Sud e Save the Children e a gennaio si è costituito in associazione, con 65 organizzazioni aderenti «e la voglia di crescere ancora»: una alleanza permante fra talenti ed esperienze diverse del Mezzogiorno.

Qual è la situazione dell’infanzia al Sud, oggi?
Il Forum sulle disuguaglianze ha dato risposte precise a questa domanda: la disparità delle risorse è crescente. C’è un accentuarsi della periferia nella periferia, molti soggetti deboli che vino in contesti di marginalità spaziale, un indebolimento crescente della famiglia, strutture carenti. È un’emergenza, ma non un’emergenza per il Sud: è un’emergenza per tutto il Paese! Invece troppo spesso si pensa che sia sufficiente agire nel luogo e nel momento in cui l’emergenza si verifica e che l’investimento sul sociale sia rispondere a un’emergenza: non è così, è un investimento sul futuro, perché domani questi ragazzi diventeranno risorse.

A quali bisogni vuole rispondere Crescere al Sud?
A questa forte criticità. Alla povertà diffusa e profonda, economica, culturale, di opportunità in senso lato che i ragazzi del Sud vivono: non basta avere le capacità se non si hanno le occasioni per metterle a frutto. C’è anche una debolezza della comunità educante, un termine anche un po' abusato, molti credono di fare comunità educante invece fanno un pezzo di lavoro educativo, ma non c’è sinergia con tutti i soggetti. Fra i soggetti della comunità educante ci sono le scuole, sono imprescindibili: una delle criticità che abbiamo valutato nella riforma del Terzo settore ad esempio è questa… Le scuole non sono soggetti di Terzo settore, ma è difficile fare comunità educante senza le scuole, per questo Crescere al Sud ha deciso di fare entrare le scuole al proprio interno. Siamo un soggetto di Terzo settore e le scuole non ci potrebbero stare, le abbiamo fatte entrare costituendo associazioni di istituti scolastici oppure facendole entrare senza diritto di voto se entrate singolarmente: l’importate è coinvolgerle.


Quanti siete?
65 organizzazioni, ma siamo in fase di esplorazione dei territori: ad esempio in Basilicata e Sardegna vogliamo sviluppare maggiormente la nostra presenza, il Sud ha sei regioni, non è pensabile coinvolgerne in maniera importante solo quattro. Tornando alle criticità, c’è la cultura dell’illegalità diffusa, che crea problemi di legittimazione al lavoro fatto sul campo. Fra i nostri ambiti di lavoro prioritario ci sarà quindi la rigenerazione dei territori, le periferie spaziali e sociali. Poi c’è la prevenzione, da fare nei primissimi anni di vita e la famiglia, non è pensabile fare un intervento solo sui ragazzi. Crescere al Sud si impegna, anche questi primi numeri lo dicono, ma chiede anche impegni precisi al governo e alle istituzioni pubbliche: l’efficacia dell’utilizzo delle risorse pubbliche ad esempio, per le riflessioni che abbiamo fatto i risultati ottenuti dai PON sono inferiori a quelli attesi, perché i progetti e non diventano politiche, c’è un’altalena per cui le attività partono quando ci sono i fondi e poi tutto si blocca di nuovo, è mancata una regia dei fondi, sono stati fatti molti interventi ma non in sinergia, non c’è stato dialogo tra i soggetti che hanno partecipato. Serve una cabina di regia per avere politiche generative: non si può pensare più a politiche che distribuiscano risorse e basta. Servono azioni che restano sul territorio e che facciano aprire cose nuove, non tornare indietro.

Ad esempio le comunità educanti?
Le scuole sono vere laboratori di pratiche innovative, sono lodevoli, ma purtroppo la scuola è ancora autoreferenziale, anche se credo che la cose stanno cambiando. La scuola non può fare da sola contrasto a tutte queste cose: la rete è un valore, perché cura. Molti ragazzi hanno una famiglia disgregata che non li supporta, ma se trovano sostegno sia scuola sia fuori dalla scuola, le cose cambiano. Il giovane viene visto da diversi punti di vista, con diversi sguardi, non solo da quello educativo o formativo: c’è la scuola, l’associazione sportiva, le famiglie dei compagni, tutti fanno un pezzo, tante componenti della società si mettono insieme per sostenere chi è più fragile. Ho in mente bene il Punto Luce di Sassari, qui si realizza davvero la comunità educante ideale, perché mette insieme davvero tutti, la scuola, la parrocchia, le associazioni sportive, il quartiere, le famiglie: è il quartiere che difende quella struttura, quando hanno rubato i canestri il giorno dopo sono stati riportati perché le persone del quartiere hanno detto “vanno riportati”.

Foto Uisp

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