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Le ong nei centri di detenzione in Libia: «Esserci è fondamentale»
"Le autorità ci fanno parlare con i migranti senza filtri. Ma le persone hanno lo sguardo perso perché non sanno cosa ne sarà del loro futuro", spiega la program manager di Helpcode, attiva con interventi in tre strutture da febbraio 2018 come gli altri cinque enti vincitori del bando ministeriale. Tra essi anche Cesvi, Emergenza Sorrisi e Albero della Vita, che spiegano come stanno andando le cose, "con l'obiettivo che questi campi vengano superati"
“Le persone detenute nel centro hanno lo sguardo vuoto, attendono qualcosa che possa cambiare la loro situazione, ma non sanno bene cosa”. Valeria Fabbroni, program manager dell’ong Helpcode, una delle sei organizzazioni umanitarie italiane che da febbraio sta operando in tre centri libici per migranti nei dintorni di Tripoli, parla chiaro. “Esserci, anche in attività dirette come distribuzione di kit igienici e manutenzione delle strutture sanitarie, è importante, perché siamo una presenza internazionale in un contesto estremamente difficile”, aggiunge.
Il contesto, buio, è quello che oramai è alla luce del sole da anni per molti studiosi di diritti umani (che in Libia spesso “mancano”, anche perché lo Stato governato dal colonnello Gheddafi fino al 2011 e ora in preda a lotte interne per il potere non ha mai firmato alcuna convenzione in materia di diritti delle persone): almeno 800mila migranti, soprattutto dell’Africa subsahariana e Corno d’Africa, ma anche Asia e Medio Oriente, trattenuti in centri legali o illegali lungo le coste libiche. In quelli legali, ovvero gestiti dal Dcim, Dipartimento libico di contrasto all’immigrazione clandestina, la comunità internazionale dopo una forte attività di pressione è riuscita a entrare, e una delle ultime conseguenze è anche il recente bando governativo italiano – promosso da Aics, Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, ente del ministero degli Esteri – per le ong per operare per quattro mesi (febbraio-maggio 2018) nei tre centri di Tarek al Matar, Tarek al Sija e Tajoura, a cui seguirà a breve un ulteriore chiamata per dieci mesi in altri cinque centri lontani dalla capitale. Helpcode, Cesvi, Cefa, Cir, Fondazione Albero della Vita ed Emergenza Sorrisi sono le sei organizzazioni non governative attive in tali centri. A Tarek al Sija, nella giornata di martedì 20 marzo 2018, alla distribuzione di 900 kit di Helpcode e dell'ong libica partner, Staco, ha assistio l'ambasciatore italiano Giuseppe Perrone.
«Allo stato attuale, Cesvi ha da poco concluso la selezione del team che segue il progetto di intervento in tre centri di detenzione in Libia, con l’ingresso di una nuova project manager con competenze specifiche nell’ambito della protezione umanitaria”, spiega Daniela Bernacchi, CEO&General Manager di Cesvi. “In questo primo periodo di attività oltre a definire le risorse che coordinano e seguono le attività di conoscenza diretta e di assistenza psico-sociale all’interno dei centri di detenzione individuati dal progetto Aics, Cesvi ha ottenuto tutte le autorizzazioni necessarie per attivare gli interventi, sostenendo una serie di incontri con Unhcr, Oim e altri stakeholder per impostare i moduli per la raccolta dati utili poi per ricostruire la storia personale dei migranti e inquadrare i casi bisognosi di cure e assistenza psicologica”. Nello stesso tempo, “è in corso la procedura di analisi dei rischi nei luoghi d’intervento, utile a definire le condizioni di sicurezza minime per il lavoro dello staff”. Sì, perché agire in quello scenario generale, definito di recente dal segretario generale dell’Onu ad alto rischio, è delicato.
“Abbiamo riscontrato un primo piccolo varco positivo di relazione tra noi e i coordinatori libici dei campi, c’è il rispetto reciproco e questo è un passo importante”, sottolinea Fabio Abenavoli, presidente di Emergenza sorrisi, il cui staff ha appena completato la formazione a 15 medici libici che ora operano sia nei tre centri che in altrettante strutture mediche adiacenti, per portare supporto sia ai migranti che alla popolazione locale vulnerabile. “In ciascun centro sta per essere ultimata un’unità mobile, vere e proprie casette mediche con allacciamento elettrico e all’acqua, che funzionerannod a ambulatorio e stoccaggio dei medicinali”, aggiunge Abenavoli. “Nei dottori che abbiamo formato e che ora paghiamo vedo un forte interesse etico oltre che professionale: questo fa ben sperare assieme al fatto che ora stiamo collaborando con questi centri senza ostacoli, cosa fino a poco tempo fa impensabile”, indica il referente di Emergenza Sorrisi.
“Non incontriamo alcuna opposizione da parte dei direttori dei centri, che ci fanno parlare con le persone detenute senza mettersi in mezzo”, prosegue nella stessa direzione Fabbroni di Helpcode. “E’ chiaro che non è facile andare a fondo nelle storie delle persone e il contesto lo conosciamo, ma dove operiamo vediamo che il rispetto delle persone c’è e non c’è sovraffollamento, sebbene assistiamo a frequenti spostamenti di persone da un centro all’altro senza capirne a fondo il motivo”. Le tre strutture sono “grandi, con un numero di sezioni che va da sette a 15, e ci vive in tutto qualche migliaio di persone, in gran parte uomini tra i 29 e i 45 anni, poche donne con bambini”. E dove sono donne, bambini e i tanti minorenni non accompagnati che poi provano la traversata? “Penso seguano altre rotte o siano in altri centri. Qui sono quasi tutti classificati come ‘migranti economici’ e non hanno più soldi anche perché a molti di loro è stato derubato tutto prima di arrivare qui. È per questo che il loro sguardo è perso, perché non sanno che ne sarà del loro futuro”. Rimpatrio? “Tutto tranne quello, non vogliono tornare da dove sono venuti anche per una questione di orgoglio”. Puntano ad arrivare un giorno ai barconi? “Puntano o a rimanere in Libia a lavorare o ad arrivare alle barche, sì. Ci viene detto che gli unici che riescono a uscire sono quelli che riescono a corrompere alcune guardie”.
Le strutture “sono comunque inadeguate, con latrine fatiscenti e insufficienti per tutti, bagni senza porte e totale assenza di cucine, per cui le persone devono dipendere dalle distribuzioni di cibo”, spiega ancora la program manager di Helpcode. “Le persone dentro le strutture sono libere di muoversi, giocano a pallone per passare il tempo, ma di certo non sono in condizioni di tranquillità mentale”. Allo stato attuale delle cose, “esserci è per noi del tutto legittimo”: la presenza delle ong trova quindi giustificazione nell’essere un occhio vigile sulle condizioni dei detenuti. “Finiremo la distribuzione di cibo e viveri entro metà maggio, ovvero l’inizio del Ramadan”. Poi speriamo di essere selezionati anche per il secondo bando da 10 mesi, perché quello sarà ancora più importante essendo di durata molto più lunga, con la possibilità di seguire più a fondo le persone intercettando tutti i casi più delicati e bisognosi di supporto personale”.
Anche Fondazione Albero della Vita ha iniziato le proprie attività, in particolare nel monitoraggio dei bambini presenti al campo di Tarek Al Matar – in tutto 28 bimbi di età molto bassa con le loro madri e tre minori non accompagnati – e nella distribuzione di generi alimentari e vestiario. Inoltre che di recente l'ong ha concluso la formazione del personale in loco all'approccio psicosociale e alla protezione dei bambini e ha attivato dei Chidl friendly space, Spazi a misura di bambino, nelll'area all'aperto dell struttura di Tarek Al Matar. "Le complessità ci sono e le condizioni di lavoro non sono facili", spiega Ivano Abbrruzzi, presidente di Albero della Vita, il cui progetto è in partenariato con Cefa e Cir, "lavoriamo tenendo bene a mente che la necessità nel tempo è che questi centri vengano chiusi per lasciare il posto ad altre strutture di accoglienza in cui le persone non siano più trattare solamente come illegali ma i libici siano convinti a introdurre una presa in carico di altro tipo". Nel frattempo, "bisogna puntare sull'evacuazione di questi luoghi, in particolare potenziando i corridoi umanitari", conclude Abbruzzi.
Foto: Helpcode
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