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Caso ProActiva Open Arms, quanto valgono i diritti umani davanti ai tribunali?
L'imbarcazione della ong spagnola è sfuggita all'inseguimento di una motovedetta libica, rifiutandosi di consegnare le persone recuperate da un gommone. Per questo una volta approdata a Pozzallo è stata sequestrata e l'equipaggio accusato di associazione per delinquere finalizzata all'immigrazione clandestina dalla procura di Catania. Ma la vicenda ha molti punti oscuri. Il punto dell'avvocato ed esperto Fulvio Vassallo Paleologo
La Procura di Catania ha disposto il sequestro della nave della ong spagnola ProActiva Open Arms, da sabato ormeggiata nel porto di Pozzallo (Ragusa) dove è avvenuto lo sbarco di 218 migranti.
Il porto di Pozzallo è l'approdo sicuro assegnato alla nave dopo il caso esploso due giorni fa nel Mediterraneo, quando la ProActiva Open Arms è sfuggita a un inseguimento di una motovedetta libica che minacciava di aprire il fuoco se i membri della ong a bordo non avessero consegnato le donne e i bambini raccolti da un gommone. Il caso si è sbloccato dopo una richiesta formale del governo spagnolo a quello italiano. Associazione per delinquere finalizzata all'immigrazione clandestina è il reato ipotizzato dalla Procura di Catania. Secondo l'accusa ci sarebbe una volontà di portare i migranti in Italia anche violando legge e accordi internazionali, non consegnandoli ai libici. Indagati dal procuratore Carmelo Zuccaro (lo stesso del caso ong di qualche mese fa) il comandante e il coordinatore a bordo della nave, identificati, e il responsabile della ong, in corso di identificazione. Il fermo è stato eseguito su indagini della polizia della squadra mobile di Ragusa e del Servizio centrale operativo (Sco) di Roma. Il provvedimento di sequestro, però, è ancora in fase di notifica.
Questa la cronaca. Abbiamo però chiesto di approfondire la questione a Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato, già docente di Diritto di asilo e statuto costituzionale dello straniero all’Università di Palermo, componente del Collegio del Dottorato in "Diritti umani: evoluzione, tutela, limiti", presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell'Università di Palermo. È anche componente della Clinica legale per i diritti umani (CLEDU) dell'Università di Palermo, membro della rete europea di assistenza, ricerca ed informazione Migreurop, membro di Associaizone Adif e componente della Campagna LasciateCientrare.
Continua la serie di tentativi di intercettazione sotto minaccia delle armi da parte della sedicente Guardia costiera “libica” ai danni di gommoni carichi di migranti soccorsi dalle poche navi delle ONG ancora presenti nelle acque del Mediterraneo centrale. Tentativi che in precedenti occasioni, come il 6 novembre 2017, erano sfociati in “incidenti” che erano costati la vita di un numero imprecisato di persone. Eppure soltanto a dicembre scorso le autorità libiche dichiaravano di non potere effettuare interventi di ricerca e salvataggio nel vasto spazio compreso in quella che sulla carta si definisce come “zona SAR libica”.
Vediamo adesso in quali condizione arrivano i migranti in fuga dalla Libia, e possiamo intuire a quale condizione terribile sono condannate le persone bloccate in mare e riportate nei centri di detenzione in Libia. Come Sagen morto per la fame e gli stenti subiti in Libia, a 22 anni, proprio dopo essere stato sbarcato a Pozzallo, dagli stessi operatori che adesso sono finiti sotto inchiesta. Adesso però, a ritornare sotto accusa, sono gli operatori internazionali delle navi umanitarie, in questo ultimo caso quelli della ONG spagnola Open Arms che, malgrado l’ingiunzione di uomini in armi saliti a bordo del loro mezzo di soccorso, non hanno consegnato ai libici donne e bambini che rischiavano di essere rigettati nei centri di detenzione che le autorità libiche, variamente collegate alle milizie, riservano a quelli che per loro sono soltanto “migranti illegali”.
La guerra alle ong
Dopo i reiterati inviti a “colpire” lanciati dalla stampa che da tempo attacca le ONG “colpevoli di solidarietà”, è arrivato un comunicato della Guardia costiera italiana che, per la prima volta, attacca esplicitamente una nave umanitaria, precisando che la responsabilità per le attività di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali erano state trasferite alla Guardia costiera libica. Secondo questo comunicato, dunque, la nave di Open Arms avrebbe dovuto obbedire agli ordini ricevuti dalla autorità SAR competente ( libica) e riconsegnare i naufraghi alle motovedette partite dalla Libia, evidentemente indirizzate sul luogo dell’incidente proprio dalle unità operative coordinate di avvistamento in attività da febbraio di quest’anno, con l’operazione Themis di Frontex e con il sistema satellitare Sea Horse, al quale partecipa anche personale proveniente da Tripoli.
In passato, in diverse occasioni, il Comando centrale della Guardia costiera italiana (IMRCC) aveva imposto alle navi umanitarie lo “stand by”, in attesa che arrivassero le unità della Guardia costiera libica, ad intercettare i gommoni carichi di migranti ed a riportare le persone “soccorse” nei centri lager dai quali erano fuggiti. Mai però si era registrata una dichiarazione unilaterale tanto esplicita da parte dell’IMRCC, con l’attribuzione alla Guardia costiera libica di una vera e propria responsabilità di coordinamento di una attività Sar in acque internazionali a tale distanza dalla costa della Libia.
«Nella giornata di ieri, la Centrale Operativa della Guardia Costiera di Roma ha ricevuto 2 segnalazioni relative a 2 unità in difficoltà con a bordo migranti nel Mediterraneo centrale», fa sapere la Guardua Costiera Italiana con una nota stampa il 16 marzo, «La Centrale Operativa informava tutte le MRCC prossime all’area in questione, avvisando nel contempo le unità navali in transito nella zona di interesse.In entrambi i casi il coordinamento veniva assunto dalla Guardia Costiera libica. Per entrambi gli eventi rispondeva l’ONG Open Arms, a conoscenza dell’assunzione del coordinamento da parte della Libia. La Open Arms traeva in salvo in totale 218 migranti».
Le regole di ingaggio SAR
È, bene ricordare in proposito che, in base alle Convenzioni internazionali, come riconosciuto in passato dalla stessa Guardia costiera italiana, la individuazione del luogo di sbarco spetta all’autorità SAR indicata come responsabile delle attività di ricerca e soccorso.
L’Art. 98.2 della Convenzione UNCLOS prevede l’obbligo, per gli Stati Parte, di istituire e mantenere un adeguato ed effettivo servizio di ricerca e soccorso, relativo alla sicurezza in mare e, ove necessario, di sviluppare, in tale ambito, una cooperazione attraverso accordi regionali con gli Stati limitrofi, ponendo le basi per l’esecuzione di accordi multilaterali (quali, ad es., i Protocolli di Palermo del 2000) e bilaterali (quali, ad es., l’accordo tra Italia e Libia del 2007 ed il successivo Trattato di amicizia del 2008).
La Convenzione SAR del 1979 impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare ed il dovere di sbarcare i naufraghi in un porto sicuro (place of safety): a tal fine gli Stati membri dell’IMO (International Maritime Organization), nel 2004, hanno adottato emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR, in base ai quali gli Stati parte devono coordinarsi e cooperare per far sì che i comandanti delle navi siano sollevati dagli obblighi di assistenza delle persone tratte in salvo, con una minima ulteriore deviazione, rispetto alla rotta prevista. Malta non ha accettato questi emendamenti. Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) dispongono che il governo responsabile per la regione S.A.R. in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito.
Tripoli come coordinamento SAR
Dunque in questa ultima occasione era evidente che l’indicazione da parte del Comando Centrale di Roma (IMRCC) della Guardia costiera italiana, che designava come autorità SAR competente la Guardia costiera libica, equivaleva a consentire che il luogo di sbarco dei migranti soccorsi in acque internazionali, a 73 miglia dalla costa, fosse un porto libico. Dopo alcuni episodi SAR coordinati dalla Guardia costiera italiana che aveva bloccato in stand by le navi umanitarie più vicine ai naufraghi da soccorrere ed atteso l’arrivo delle motovedette libiche, il salto di “qualità” di questi ultimi giorni è costituito dalla individuazione delle autorità libiche, la Guardia costiera di Tripoli, e non la singola unità reperibile vicino al luogo dei soccorsi, come autorità di coordinamento degli interventi di ricerca e soccorso, dunque in grado di decidere unilateralmente il luogo di sbarco (in Libia) delle persone intercettate in acque internazionali. Sembra del resto provato che le motovedette libiche svolgano una costante attività di sorveglianza proprio in prossimità delle navi delle ONG impegnate nelle attività di ricerca e soccorso.
La presenza dell’UNHCR in alcuni dei porti di sbarco in Libia consente di assistere una minima parte dei migranti più vulnerabili, ma non incide sul destino riservato alla maggior parte di loro. Di fatto si verifica l’abbandono dei migranti e dei loro soccorritori alla esclusiva potestà d’imperio delle autorità libiche in armi, miliziani imbarcati a bordo delle motovedette donate da Minniti, ma anche personale più specializzato che ha seguito i corsi di formazione a bordo delle unità militari italiane, della Guardia di finanza e dell’operazione europea Eunavfor Med. I risultati comunque non cambiano a seconda della qualità degli equipaggi libici, come si desume dalle modalità violente degli interventi e dall’elevato numero di vittime registrato negli ultimi mesi. Malgrado il calo delle partenze, la percentuale delle vittime è in costante aumento e per quanto riguarda le autorità italiane, occorre ricordare che qualunque ritardo nei soccorsi può essere imputabile sul piano penale a quelle autorità ed a quelle persone che lo hanno prodotto sotto giurisdizione italiana.
Il caso Pro Arms
La posizione assunta dalla Guardia costiera italiana con il suo ultimo comunicato ha aperto anche un grave conflitto internazionale, adombrando che la responsabilità di individuare un luogo di sbarco, prima che alla Libia, potesse toccare a Malta, o alla Spagna, ed ha esposto gli operatori umanitari della nave spagnola di Pro Arms ad una attività di indagine da parte della polizia di Pozzallo, trattenuti per ore sotto interrogatorio all’interno del locale Hotspot subito dopo il loro attracco, dagli esiti purtroppo facilmente prevedibili. Basti pensare al sequestro della nave Juventa lo scorso anno, ancora bloccata nel porto di Trapani, con le incriminazioni che sono seguite a mesi di distanza,ed al rilancio del ventaglio di insinuazioni contro gli operatori umanitari, accusati di essere “taxi del mare” se non di collusione con i trafficanti. Ancora in queste ore la nave di Open Arms è trattenuta dalla polizia, ferma nel porto di Pozzallo, quando sembrava che le fosse consentito ripartire per Malta. Si prospettano iniziative giudiziarie nei confronti del comandante e del capo missione. Iniziative che alla fine si sono concretizzate in accuse pesantissime che la Procura di Catania dovrà provare in giudizio. Per la Procura di Catania i migranti soccorsi in acque internazionali avrebbero dovuto essere consegnati alla Guardia costiera libica per essere ricondotti a terra.
Un caso di leggittimità
Si pongono a questo punto diverse questioni. Innanzitutto occorre verificare con quale legittimazione il Comando della Guardia costiera italiana abbia indicato come autorità SAR competente la Guardia costiera libica, dal momento che in documenti anche recenti della stessa Guardia costiera italiana si riconosce che la nessun porto della costa libica può costituire un porto sicuro ( place of safety).
Secondo quanto indicato nell’ultimo Rapporto annuale di attività della Guardia costiera italiana, «The Italian Govern is pursuing activities to allow Libyan Navy and Coast Guard to improve their operational capabilities; there are several on-going projects as, for example, one for the personnel training, and one for the provision of adequate equipment. In this respect, Libyan Authorities, are increasing their presence at sea, even if within specific areas; the 14th on December 2017, Libya filed a declaration at International Maritime Organization (IMO) about the declaration of a Search and Rescue Region (SRR), following a previous declaration of July, later cancelled by the December one. By the way, the presence in the area of Libyan units led,sometimes, to critical issues, due to communication difficulties with the naval on-duty assets; such were partially solved at the end of the year, when Italy launched operation “Nauras”». Non ci sono però fonti ufficiali dalle quali sia possibile desumere le linee operative di questa missione, salvo isolate testimonianze personali da Tripoli di alcuni suoi componenti, che comunicano sui social.
La presenza in porto a Tripoli di unità della Marina militare, dal mese di agosto del 2017, ed il lancio dell’operazione NAURAS con base a Tripoli, non contribuiscono certo a migliorare la condizione dei migranti intercettati in acque internazionali dalla Guardia costiera libica, ma sono indice di una elevata corresponsabilità delle autorità italiane nelle operazione di blocco in alto mare e riconduzione a terra, delegate alla stessa guardia costiera fedele al governo di Tripoli. Ci sono anche le prove che in diverse occasioni i libici hanno raggiunto i gommoni in acque internazionali proprio grazie alle segnalazioni da parte delle autorità italiane, e sembra sempre più operativo il coordinamento italo-libico stabilmente basato nel porto militare di Tripoli.
Gli accordi Italia-Libia
Gli accordi stipulati dal governo italiano con le autorità di Tripoli ( che non controllano più di un quarto del territorio libico) non prevedono una deroga, né potrebbero prevederla, alle Convenzioni internazionali di diritto del mare ( Convenzione UNCLOS del 1982, Convenzione SAR del 1979 e Convenzione SOLAS, con relativi emendamenti) che stabiliscono le responsabilità di soccorso a seconda delle zone SAR e gli obblighi degli stati che intervengono in acque internazionali di garantire lo sbarco in un porto sicuro. Non sarà certo la presenza di alcuni operatori OIM o UNHCR in banchina a Tripoli, o le visite periodiche effettuate in alcuni centri di detenzione, a permettere di qualificare il porto di Abu Sittah o altri porti libici come “porti sicuri”. Sono troppo numerose le testimonianze di migranti che ribadiscono le violenze che subiscono nella fase di rientro a terra ed anche nei centri di detenzione in cui periodicamente viene consentito l’accesso dell’OIM o dell’UNHCR. Eppure il progetto di assegnare a Tripoli il coordinamento delle attività di ricerca e soccorso in quella che viene inventata come “zona SAR libica” al solo fine di giustificare le intercettazioni in acque internazionali e la riconduzione a terra, continua da mesi. E con le forze politiche uscite vincenti dalle ultime elezioni potrebbe subire altre accelerazioni, di cui forse tengono già conto i vertici militari, politici e giudiziari. Anche contro la normativa internazionale e le prassi consuetudinarie fin qui seguite. Sembra irrilevante quanto sostenuto da anni dalle principali agenzie umanitarie. Affidare i soccorsi alle autorità libiche costituisce un attentato alla vita umana dei migranti.
La Libia non può essere zona SAR e non ha porti sicuri
La Libia non ha una zona SAR riconosciuta a livello internazionale. Dopo avere autoproclamato una propria zona SAR nel mese di agosto del 2017, proprio in coincidenza con l’imposizione di un codice di condotta alle ONG da parte del ministro dell’interno Minniti, nel mese di dicembre dello stesso anno appariva evidente la rinuncia delle autorità libiche alla richiesta avanzata all’IMO, perchè queste stesse autorità riconoscevano di non essere in grado di soddisfare i requisiti richiesti dall’IMO per il riconoscimento internazionale di una zona SAR. Riconoscimento che implica una precisa responsabilità nell’assunzione di obblighi di soccorso, di salvataggio e di sbarco in un luogo sicuro che evidentemente il governo di Tripoli non era ( e non è ancora oggi) in grado di rispettare.
Dopo l’aumento delle partenze dalla Libia nel mese di gennaio di quest’anno, a partire dal mese di febbraio è stata lanciata l’operazione Themis di Frontex, che ha ritirato dal Mediterraneo centrale i suoi assetti navali, ed ha affidato alla modesta presenza della missione militare Eunavfor med il compito di contrastare il traffico di migranti via mare, oltre agli altri compiti assegnati a quest’ultima missione. Con Themis Frontex ha chiuso l’esperienza fallimentare di Triton, che avrebbe dovuto operare fino a 135 miglia a sud delle coste di Malta e Lampedusa, di fatto fino a 40-50 miglia dalle acque territoriali libiche. Themis non prevede attività di ricerca e salvataggio che pure sarebbero imposte dal Regolamento europeo n.656 del 2014. Ormai tutte le iniziative dell’Unione Europea, a partire dai cospicui finanziamenti dell’Africa Trust, sono destinati ad impedire che i migranti, anche se potenziali richiedenti asilo, possano arrivare in Europa. Non è neppure prevista la presenza di assetti navali europei nella zona di acque internazionali del Mediterraneo Centrale, che si vuole lasciare agli interventi di intercettazione, più che di soccorso, delle motovedette libiche. Per questo le poche ONG ancora presenti in quella zona devono essere spazzate via, dai libici o dalle autorità italiane.
In base alle previsioni operative di Themis sembra che sia riconosciuta di fatto una zona SAR di competenza libica, solo che quella zona non esiste, in base a quanto accertato dall’IMO, e neppure si può sostenere che il coordinamento nelle operazioni di avvistamento realizzato con la partecipazione di libici con il programma europeo Sea Horse possa modificare la ripartizione di competenza nella attribuzione e nella gestione effettiva delle zone SAR. Quando è in gioco la vita umana si devono valutare le effettive capacità di ricerca e soccorso e la sicurezza dei luoghi di sbarco, non certo gli emendamenti ed i codicilli di accordi internazionali riservati adottati più per difendere le frontiere che per salvare vite umane. Ed è per questa ragione che l’IMO lo scorso dicembre rifiutava il riconoscimento di una zona SAR libica, chiedendo a Tripoli ulteriori requisiti che non sono stati ancora soddisfatti. In un suo recente Rapporto di attività è la stessa Guardia costiera italiana che prende atto di questa situazione e richiama il suo impegno di “mediazione” tra le autorità libiche e le ONG che svolgevano attività SAR, sotto il suo coordinamento, ma questo si omette, al fine di evitare incidenti. Adesso sembra che quella attività di “mediazione” che permetteva il soccorso delle ONG si sia bruscamente interrotta, con l’affidamento della responsabilità di coordinamento delle attività SAR alla Guardia costiera libica, pure in assenza del riconoscimento ufficiale di una zona SAR libica.
Non si comprende come oggi il Comando centrale della guardia costiera italiana (IMRCC) possa attribuire il coordinamento di operazioni di ricerca e soccorso (SAR) in acque internazionali, smentendo quanto riconosciuto fino a tre mesi fa, e condannando le persone abbandonate ai soccorsi dei libici alla riconduzione a terra in un porto che non può essere certamente qualificato come “place of safety”. E’ del resto noto, sempre alla stregua delle Convenzioni internazionali e delle prassi consuetudinarie, che la Guardia costiera italiana, in assenza di una zona SAR libica riconosciuta a livello internazionale, dovrebbe mantenere la responsabilità si Coordinamento SAR per le attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali, se raggiunto da una richiesta di soccorso, quando il paese titolare sulla carta non è in grado di garantire soccorsi tempestivi e luoghi di sbarco sicuri, purché gli interventi avvengano al di fuori delle acque territoriali libiche ( 12 miglia dalla costa). Anche se le stesse Convenzioni prevedono che, al fine di garantire la salvaguardia della vita umana in mare, il Comando italiano, sulla base di accordi regionali, possa chiamare unità libiche che si trovano in prossimità dei barconi da soccorrere, ma non certo quando queste persone sono già state soccorse e si trovano addirittura a bordo di un mezzo che, come nel caso di Open Arms e dei suoi battelli di servizio, espone la bandiera di uno stato dell’Unione Europea.
Il trasferimento della responsabilità per gli interventi di ricerca e soccorso (SAR) in acque internazionali non può costituire uno strumento per fondare di fatto una zona SAR libica che per il diritto internazionale non esiste, né per consentire lo sbarco delle persone soccorse in alto mare in un porto libico che non può certo essere qualificato come un “porto sicuro”, considerate le miserevoli condizioni di trattenimento schiavistico che subiscono in Libia. Allo stesso modo lo stesso trasferimento di responsabilità SAR, imposto unilateralmente da un autorità di coordinamento nazionale come l’IMRCC, non può precostituire il fondamento di una qualsiasi responsabilità a carico di quegli operatori umanitari che hanno rispettato in pieno le Convenzioni internazionali sul soccorso ed il salvataggio in alto mare, che impongono la priorità inderogabile della salvaguardia della vita umana e lo sbarco delle persone soccorse in un luogo sicuro ( place of safety), anche per non violare il fondamentale principio di non refoulement (art.33) della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati.
Il divieto dei respingimenti collettivi è aggirato
Appare sempre più evidente come con il “combinato effetto” dell’operazione Themis di Frontex, con le nuove linee operative adottate dal Comando delle guardia costiera italiana e con il pieno coinvolgimento delle autorità di Tripoli, ammesse anche alla Centrale del coordinamento del sistema di avvistamento europeo SEA HORSE, e ancora con la consegna di motovedette e con il sistema unificato di Coordinamento operativo italo-libico ubicato a Tripoli, si stia aggirando il divieto di respingimenti collettivi sancito dal Quarto Protocollo (art.4) allegato alla CEDU. Una norma che ha già portato alla condanna dell’Italia sul caso Hirsi nel 2012, per i respingimenti diretti effettuati nel maggio del 2009 dalla Guardia di finanza con la motovedetta Bovienzo che, su ordini dell’allora ministro dell’interno Maroni, riconsegnava nel porto di Tripoli decine di profughi intercettati in acque internazionali. Oggi piuttosto che a respingimenti diretti, si assiste alla delega delle attività di intercettazione in acque internazionali e di riconduzione a terra alla Guardia costiera che si definisce “libica” anche se è evidentemente in grado di controllare tutta la vasta zona di mare ricompresa in quella che si vorrebbe individuare come “zona SAR libica”. E tantomeno in grado di garantire un porto sicuro di sbarco.
Occorre dunque raccogliere tutti gli elementi che comprovano la partecipazione attiva delle autorità italiane ed europee ( attraverso Frontex, Eunavfor Med e Sea Horse), alle attività di intercettazione in acque internazionali di gommoni carichi di migranti da parte di unità riconducibili al governo di Tripoli, per presentare esposti e denunce davanti ai tribunali internazionali e nazionali. La massiccia pressione mediatica contro le ONG, che si rinnova dopo la macchina del fango già sperimentata nell’estate del 2017, e le posizioni della maggior parte del corpo elettorale, chiuso tra indifferenza e paure che hanno pesato sulla composizione del nuovo Parlamento italiano, non fanno purtroppo presagire interventi legislativi o di nuovi esecutivi,a salvaguardia dei diritti fondamentali delle persone in fuga dalla Libia da soccorrere in acque internazionali. Una situazione di stallo nella difesa dei diritti, umani, a partire dal diritto alla vita e dal divieto di tortura o trattamenti inumani i degradanti, che è purtroppo comune a molti paesi europei. E che si riscontra anche a livello di Corte di Giustizia dell’Unione Europea che è giunta a dichiarare la propria incompetenza su un ricorso presentato contro gli accordi stipulati tra i leaders europei e la Turchia di Erdogan, che ancora in questi giorni si sta rendendo colpevole di un vero e proprio genocidio.
Occorre ribaltare le accuse che dopo l’episodio dell’intercettazione in alto mare della Open Arms da parte delle motovedette libiche rischiano di fare ripartire un ulteriore massacro mediatico degli operatori umanitari e di esporli a iniziative giudiziarie dall’esito imprevedibile, visto l’aria che tira nel paese.
Una battaglia legale che non deve far dimenticare i migranti
Per questo vanno individuate tutte le sedi di ricorso ancora effettivamente raggiungibili, se non dalle vittime, condannate a scomparire nei lager libici, ed a morire di fame e di abusi, se non ad essere inghiottiti in mare. Le organizzazioni umanitarie che devono attrezzarsi con legal team capaci di respingere in tempo reale ogni montatura mediatica e giudiziaria e di produrre una informazione autogestita che riesca a smentire le ricostruzioni artefatte diffuse sui media e sui social. Magistrati davvero indipendenti dovrebbero interrogare i vertici della Guardia costiera, di Frontex e della Marina militare per accertare le vere responsabilità che emergono da questi fatti. Senza cercare di creare per via giudiziaria il reato di solidarietà.
Nelle prossime settimane si intensificheranno gli attacchi politici e le iniziative giudiziarie contro il fronte della solidarietà, che malgrado tutte le pressioni a cui è sottoposto da anni, esiste e resiste. Devono crescere e rinforzarsi le reti di solidarietà attorno ai migranti che comunque riusciranno ad arrivare in Italia. I loro corpi ed i loro racconti, più che le considerazioni giuridiche, saranno la smentita e la condanna senza appello di tutti coloro che oggi vorrebbero mettere sul banco degli imputati chi si è reso “responsabile” di solidarietà umana e di autentico rispetto del diritto internazionale del mare.
Nessuno ti regala niente, noi sì
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