Cultura

Se la povertà diventa parte dell’arredo urbano

Cresce il divario fra ricchezza e povertà. Gli ex invisibili - padri separati, giovanissimi alcolisti, disperati dell'Est - vivono e dormono sotto gli occhi di tutti accanto a bancomat e vetrine del centro di Milano. Qualcuno se ne accorge? Perché la povertà viene declinata in voci che non interrogano più le forme dell'esistenza e del nostro vivere insieme?

di Marco Dotti

La povertà è diventata parte del paesaggio. A Milano, basta fare un salto tra piazza San Babila e le vie del centro per vedere come il vissuto concreto delle disuguaglianze sia diventato complementare all’arredo urbano. Cambiando città, il risultato non cambia.

Negozi con le porte sempre aperte, da cui escono folate di caldo che accarezzano i desideri dei devoti dello shopping, e freddo siberiano per le strade a bruciare la pelle e le ossa a quelli – e sono sempre più e sempre più giovani – che vivono il disagio di non avere casa, lavoro, talvolta affetti.

L'alcolismo è tornato, le droghe sono sempre più diffuse. Chi se ne accorge? Non che manchino accoglienza, solidarietà, impegno. Tutt'altro. Ma è questa convivenza fra alto e basso, fra (extra) ricco e (super) povero che ci sembra una novità per la sua evidenza sfacciata. Ed è questa "naturalizzazione" del disagio che dovrebbe interrogarci.

Quando la povertà diventa parte delle nostre abitudini, significa che le cose si mettono davvero male. L’Istat stima siano 1 milione e 619mila le famiglie che versano in condizione di povertà assoluta: una condizione che tocca 4 milioni e 742mila persone. E il 37% dei giovani, avverte la Cei, è a rischio esclusione sociale.

Accanto ai bancomat e sotto le vetrine più belle (come nella fotografia che abbiamo scattato), i passanti hanno abituato il proprio sguardo alla miseria degli ex invisibili. A forza di vederli, hanno finito per non vederli più.

Talvolta qualcuno si ferma a parlare con chi dorme e vive per strada, ma la prima città, quella degli inclusi, continua a non percepire il contrasto con la seconda città, quella degli esclusi:, come se non potessimo più farci nulla. Come se la città che soffre fosse una conseguenza inevitabile e persino tollerabile della città che consuma e si diverte.

Su questo piano, Milano sembra regredita agli anni ’40. Proprio in quegli anni, in un articolo pubblicato sul “Giornale degli Economisti”, Carlo Dacò pubblicava un articolo sul tema dei senza tetto nella città lombarda. Nel '40, a Milano erano attivi tre alberghi notturni per senza tetto: 1) il «dormitorio di via Soave» (sorto nel 1903 come Casa di ristoro dell'Ente comunale di assistenza); 2) il «dormitorio di via Colleta» (sorto nel 1905 come Dormitorio popolare Luigi Buffoli); 3) il «dormitorio di via P. Sottocorno» (sorto nel 1884 come Asilo notturno gratuito femminile Lorenzo e Teresa Sonzogno).

Ma ciò che più interessa in quel vecchio articolo è la fotografia di un ascensore sociale che, come oggi, andava solo in discesa.

Scriveva Dacò nel suo articolo sui senza tetto di Milano: «Gli asili notturni sono una specie di "porto di mare in terra ferma". Ad essi affluiscono persone d'ogni condizione ed età. A volte il direttore del dormitorio scorrendo le carte presentate da un nuovo cliente, scorge che esso è un nobile od un laureato, altre volte viene presentata come carta di riconoscimento la tessera dell'Unione nazionale ufficiali in congedo d'Italia. Come mai costoro cadono così in basso? Non è possibile dare una risposta esatta, ma nella maggior parte dei casi la causa va ricercata in condanne penali e, per alcuni, in disastri finanziari. (…) Ci sono poi i dissestati. Sono in gran parie piccoli commercianti, rivenditori al minuto, rappresentanti di commercio. Falliti, perdono tutto o gran parte della loro sostanza e, presto o tardi, si trovano senza soldi e, quel che è peggio, senza un mestiere».

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