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Milesi: «Il caso Haiti è un altro colpo alla fiducia nelle Ong»
Secondo il presidente di Cesvi la collaborazione tra le diverse organizzazioni è uno degli elementi chiave per migliorare il processo di selezione, riducendo i rischi di cattiva condotta e gli abusi ma «pensare di essere immuni da comportamenti delinquenziali è impossibile» e il caso Haiti è un altro durissimo colpo al mondo dell’umanitario
«Esistono strumenti efficaci per la selezione del personale ma pensare di essere immuni da comportamenti delinquenziali è impossibile», dice il presidente del Cesvi, Giangi Milesi che, commentando la bufera scatenata dal caso Haiti, spiega perché l’antidoto più efficace contro violenze, abusi e comportamenti inappropriati è la collaborazione tra le diverse Ong.
Esiste effettivamente un tema di cosiddetti “predatori sessuali” che entrano nel mondo dell’umanitario per perseguire i propri obiettivi nelle zone di crisi e nei Paesi in via di sviluppo?
Dai fatti sembrerebbe di sì. Il nostro processo di selezione del personale è molto rigoroso, prevede dei colloqui psicologici ma saremmo lombrosiani se pensassimo che sia possibile prevedere i comportamenti di alcuni soggetti in anticipo. Ciò che facciamo è una verifica approfondita delle competenze e della motivazione dei candidati ma da qui ad escludere categoricamente che una persona possa infilarsi in un’organizzazione per fare altro è un’altra cosa. A noi casi di questo tipo non sono successi. Il nostro staff comprende in tutto un migliaio di persone, si tratta di numeri molto diversi da quelli delle Ong citate in questi giorni. Purtroppo è impossibile escludere le azioni dissennate di singoli individui. Rimane comunque una grande amarezza e tristezza per questi fatti, nel momento in cui siamo tutti fortemente impegnati a migliorare le nostre governance.
Che tipo di misure possono essere prese però per ridurre i rischi al minimo?
Sicuramente la formazione è un punto di partenza fondamentale su cui noi investiamo moltissimo. Si svolge regolarmente ogni mese per una settimana. Dal 2007 abbiamo un codice etico e una casella postale per il whistleblowing (la denuncia) e più recentemente una complaint box (scatola dei reclami) per i nostri beneficiari. Si tratta di strumenti che fanno emergere le criticità e rafforzano la partecipazione e con essa l’efficacia dei progetti. Inoltre la maggior parte del nostro personale è composto da donne, il che all'inizio può accentuare le fatiche dell’accettazione da parte di alcune comunità, ma alla lunga rafforza i processi di cambiamento.
L’alta percentuale femminile tra gli operatori può essere valutata come uno strumento di prevenzione?
No, però sicuramente l’ampia presenza di donne rafforza la capacità di incidere anche sul piano culturale. Quando Yunus ha verificato che le donne erano più efficaci nella gestione economica degli uomini ha provato che per effettuare dei grandi cambiamenti, le donne sono fondamentali.
Il tema Haiti ha ovviamente sollevato una questione importante rispetto alla selezione del personale. Oxfam Italia, ad esempio, chiede il casellario giudiziario per chi lavora con i minori. Nella vostra esperienza quali sono gli strumenti più efficaci?
Le richieste di referenze rispetto alle esperienze pregresse sono fondamentali, così come la consultazione da parte dell’HR degli uffici risorse umane delle organizzazioni per cui le persone hanno lavorato in precedenza. Per quanto riguarda chi è destinato a lavorare con i minori, applichiamo dal 2014 il decreto legislativo che richiede il certificato penale del casellario giudiziale. Il casellario giudiziale, percò verifica solamente se c’è la condanna, ma da questo non si può capire se la persona è effettivamente all’altezza. Il reato è l'atto più grave ma possono esserci anche altri comportamenti violano la nostra mission e i principi di uguaglianza e fraternità della cooperazione, per questo i codici comportamento sono molto importanti.
Una tema emerso dal caso Haiti riguarda l’opportunità di rendere noti i nomi degli operatori coinvolti in vicende abusi e violenze. Da una parte c’è il rischio che mantenendo l’anonimato le stesse persone che vengono licenziate trovino poi lavoro in altre Ong, dall’altro c’è un tema di privacy. Il direttore di Oxfam Italia sottolineava l’assenza di un sistema di “alert” tra le organizzazioni che si occupano di umanitario. Come vi ponete rispetto a questo?
Un sistema di alert non c’è perché non può esistere all’interno della nostra legislazione giuslavoristica e della privacy. Gli strumenti che abbiamo sono le referenze e la comunicazione tra gli uffici risorse umane delle varie organizzazioni. La creazione di una rete forte tra Ong in questo senso è fondamentale.
Internamente bisogna poi lavorare sulla selezione, sulla formazione e sul rispetto rigoroso dei codici di condotta. Noi abbiamo dei vincoli di natura etica relativamente al comportamento dei nostri operatori, rispetto allerelazioni con i beneficiari ma anche rispetto alla prostituzione e all’uso improprio delle nostre sedi. Effettuiamo delle visite di controllo e le missioni sono sottoposte a valutazioni. Dobbiamo applicare delle misure efficaci con la consapevolezza che essere immuni da condotte delinquenziali di questo tipo è impossibile. Ciò che possiamo fare è promuovere un ambiente fortemente sfavorevole e punitivo di abusi e atti criminali.
Che impatto ha avuto l’inchiesta del Times sulle Ong italiane?
Si tratta di un caso con una radice inglese eppure l’impatto va oltre i confini britannici. La cosa preoccupante è che questi scandali emergono contemporaneamente ad una crisi della fiducia generalizzata nelle istituzioni e anche nelle Ong e questo è un peccato, non solo per le organizzazioni ma per tutti. La mancanza di fiducia è un danno enorme, all’economia e alla convivenza. È il segno che anche le relazioni si riducono a semplici contatti. La fiducia dovrebbe essere curata di più. È un bene preziosissimo.
Foto: Cesvi
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