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Nel Mediterraneo chi fa ricerca e soccorso è allo stremo

A poche settimane dall’inizio del nuovo anno, sono circa 200 le persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo. L’ultima tragedia giovedì mattina, quando un neonato soccorso dall’organizzazione spagnola Proactiva Open Arms è morto nell’attesa di un trasporto sanitario d'urgenza. Nel frattempo, spiega Riccardo Gatti, direttore operativo dell’Ong, per le navi umanitarie impegnate in mare, la situazione è sempre più critica

di Ottavia Spaggiari

È iniziato solo da qualche settimana ma il 2018 è già un anno mortale per chi cerca di attraversare il Mediterraneo, con quasi 200 persone che hanno perso la vita dal 1 gennaio. L’ultima, ennesima tragedia, giovedì mattina quando un bimbo di tre mesi, il piccolo Haid, salvato dalla nave dell’Ong spagnola Proactiva Open Arms, è morto nell’attesa di un trasporto sanitario d'urgenza. Una tragedia annunciata, come ci ha raccontato Riccardo Gatti, che proprio di Proactiva Open Arms è direttore operativo.

Cos’è successo negli ultimi tre giorni? Come si è arrivati alla morte di Haid, dopo che era stato salvato dal mare?

In questo periodo dell’anno per via del maltempo il mare è burrascoso e appena le acque si calmano un attimo, le persone ripartono. Gli ultimi giorni sono stati intensi. In pochi giorni sono state salvate circa 1600 persone a largo delle coste libiche. Nello stesso giorno la nostra nave ha portato a termine due operazioni diverse. Prima un’imbarcazione con 450 persone a bordo e poi un gommone con altre 600 persone.
Purtroppo abbiamo anche recuperato i corpi di una ragazza e di un neonato. Abbiamo trasbordato una parte delle persone su un’imbarcazione di Sea Watch e abbiamo chiesto un’evacuazione d’urgenza per motivi medici al Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo, sia per una ragazza che aveva partorito prematuramente, che per questo bimbo che era profondamente malnutrito e non riusciva ad alimentarsi.
Nel frattempo, per via del maltempo abbiamo dovuto continuare a navigare nella zona più riparata. Siamo riusciti a portare a termine una prima evacuazione per la donna su una nave militare, ma per il bambino abbiamo dovuto aspettare. Purtroppo non c’erano abbastanza navi disponibili sul posto, la prima possibilità di trasbordo sarebbe stata ieri, ma il piccolo non ce l’ha fatta.

Nella zona di ricerca e soccorso, quindi non c’erano abbastanza navi…

Esatto. È una precisa scelta politica. Ormai le Ong operative rimaste in mare sono poche. Continua a mancare un vero e proprio progetto europeo di salvataggio e la pressione su chi è rimasto è altissima. Noi Ong continuiamo a lavorare praticamente da sole insieme alla Guardia costiera italiana. Le evacuazioni poi sono complicate, le variabili in mare sono enormi, così come gli spazi da percorrere. Ci si mette il tempo che ci si mette. Poi spesso sul radar non vediamo la presenza delle navi militari, che in diversi casi usano dei sistemi di oscuramento, quindi non sappiamo a chi poter chiedere aiuto per un trasbordo.

Com’è cambiata la situazione per le Ong nel Mediterraneo negli ultimi mesi?

Dalla tragedia del 6 novembre scorso, dove sono morte circa 50 persone, i libici non si vedono quasi più. Dopo che ci avevano attaccato più volte e lo scorso agosto avevano addirittura sequestrato un nostro equipaggio, sono improvvisamente scomparsi. Nel frattempo si annuncia l’evacuazione di 10mila persone dalla Libia, ma è difficile pensare che non faccia tutto parte di uno spot da campagna elettorale, perché le persone dalla Libia continuano a partire e a morire in mare. La situazione rimane pesantissima. Dobbiamo sbarcare una nostra soccorritrice esperta perché non ce la fa più. Oltre a tutto quello che si vede in mare, bisogna anche confrontarsi con un contesto politico molto ostile.

La campagna di delegittimazione del lavoro di salvataggio delle Ong nel Mediterraneo, ha portato ad un calo delle donazioni in Italia. Anche in Spagna avete assistito ad un fenomeno simile?

Assolutamente sì. Purtroppo la raccolta fondi è sempre più difficile, anche per noi che siamo quasi tutti volontari. Su 19 persone dell’equipaggio solo sette sono stipendiate, il capomissione e le sei che fanno parte dell’equipaggio fisso, richieste dalla bandiera della nave. I fondi sono in calo. Anche trovare le risorse necessarie per il gasolio ormai è diventato molto complicato. Nel frattempo quasi nessuno parla più di quello che sta succedendo in mare. Se non avessi chiamato in Italia per raccontare la tragedia di Haid, nessuno avrebbe saputo nulla. I riflettori si sono spenti.

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