Volontariato

Lettera a una professoressa. Il potere sovversivo delle parole

La scomparsa di Michele Gesualdi, allievo di don Milani, ci porta ancora una volta e ancora di più a riflettere sulla Scuola di Barbiana. Perché la lezione di don Milani è tanto importante per noi, oggi

di Pietro Piro

Se oggi vogliamo aggiungere elementi critici di comprensione del pensiero di Don Lorenzo Milani, attraversando i banchi di nebbia della celebrazione, dell'agiografia e del rifiuto aprioristico, dobbiamo sforzarci di seguire l'esempio di Vanessa Roghi che con il suo La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro il potere delle parole (Laterza, Roma-Bari 2017) ci fornisce un'accurata ricostruzione di tutto il dibattito che precede, accompagna e segue la pubblicazione della Lettera a una professoressa.

Il contesto

Ricostruzione storiografica seria e completa che ci aiuta a collocare l'attività pedagogica del priore di Barbiana in un contesto più ampio ed è utile per capire come la Lettera abbia rappresentato un punto di riferimento essenziale per chi ha voluto pensare i temi della scuola e dell'educazione.

Come nasce questo libro? Scrive l'autrice: «Lettera a una professoressa nasce così, da un metodo che si è fatto concreta azione, scrittura, pratica politica: l’arte dello scrivere è la religione. Il desiderio d’esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è l’amore».

Nasce dentro la biografia di don Milani e dei suoi ragazzi, da un incontro che diventa spinta conoscitiva, «germinato da motivazioni sovratemporali, ma al tempo stesso nutrito di fatti ed idee temporali». È il punto di arrivo di un ragionamento mai interrotto, fatto ad alta voce in ogni luogo, con ogni interlocutore, un ragionamento contagioso, al punto che i ragazzi di Barbiana, che scrivono insieme a don Milani, restituiscono parole, concetti, usati dal priore in decine di occasioni pubbliche e private, come se la loro voce fosse la sua e distinguerli ormai impossibile […] Il cuore della Lettera a una professoressa giace qui, in questa infinita fiducia nella possibilità, nella capacità degli insegnanti di andare oltre l’esperienza, delle cose viste nelle strade, nelle case, nei boschi, trasformandola in conoscenza. Ma andare oltre non significa negare, ignorare, cancellare. Significa fare tesoro di ciò che si vede, di ciò che si sa (pp. 96-97). Libro collettivo che riesce – come raramente accade ancora oggi nel nostro Paese – a dare voce ai bisogni degli esclusi, alla loro visione della scuola e del sapere. Un libro "dal basso" che mira in alto, a una rinnovata visione del sapere e della società.

Come ha scritto Alfonso Berardinelli: «un libro sulla scuola che si trasforma in un pamphlet antiborghese, in un manuale di morale cristiana militante, in un trattato sull’uso della lingua e della cultura scritta che è considerato la più sorprendente invenzione saggistica della seconda metà del secolo». Questo perché Lettera a una professoressa è la cerniera che unisce il mondo prima e dopo il 1968. Parafrasando don Milani, siede fra passato e futuro (p.98).

Prima e dopo La lettera

La lettera è dunque un libro scritto nel cuore della disuguaglianza e che vuole fornire alle coscienze più avanzate un appoggio per pensare le riforme necessarie per una istruzione meno escludente.

«Per superare, dunque, questo abisso di disuguaglianza la scuola deve, innanzitutto, attuare le riforme; farlo seriamente, dicono i ragazzi di Barbiana, facendo così diventare la scuola il principale terreno della lotta di classe, l’unico, anzi, nel quale la lotta di classe abbia davvero un senso: un operaio istruito, consapevole, in grado di capire e far rispettare un contratto di lavoro, una trattativa sindacale, sta da pari a pari di fronte al padrone, ci sta da cittadino sovrano» (p. 104).

La lotta però non conduce alla totale sfiducia nell'istituzione quanto nella sua apertura e modernizzazione, infatti: «Lettera a una professoressa non è un’opera di demolizione della scuola pubblica, come più volte è stato scritto, bensì il contrario; come scrive lo stesso don Milani, è “un canto di fede nella scuola”, scritto affinché i genitori si rendano conto che tutti, proprio tutti i loro figli hanno il diritto di ricevere la stessa istruzione; scritto per quei genitori che se ne sono resi conto e per questo hanno rinunciato ad emigrare al piano, in città, là dove il lavoro sarebbe più sicuro (p. 109)».

La fortuna della Lettera è immensa e «viene accolta dai linguisti come un prontuario di indicazioni pratiche per una pedagogia linguistica democratica. Dai professori come un vademecum per una scuola alternativa. Dagli studenti come un viatico per la rivoluzione. E assume immediatamente uno straordinario rilievo» (p. 115). Il giudizio sulla Lettera di Gianni Rodari ci permette di comprendere l'entusiasmo che poteva suscitare:

«Il più bel libro che sia mai stato scritto sulla scuola italiana, il più appassionante, il più vero. Vi si respira e misura la rivolta, l’aspirazione inarrestabile alla cultura, la volontà di cultura a tutti i costi, in cui si muta una profonda presa di coscienza dei propri diritti. Vorremmo consigliarlo a tutti gli insegnanti italiani, perché, nella sua durezza, è un appello alla grandezza della loro missione: anche nella critica ingiusta è un canto d’amore alla scuola. Da quel libro abbiamo tutti da imparare: maestri, genitori, professori, giornalisti, uomini politici. Proprio perché è così poco “diplomatico”; perché dice verità spiacevoli; perfino perché le esagera in qualche punto, con un’irruenza giovanile di cui invano si cercherebbero le tracce nei componimenti scolastici» (p. 115).

Nonostante le accuse di essere un testo "cinese" che insegna a diffidare degli intellettuali e delle ideologie, sbilanciato e irruento, la Lettera contribuirà insieme a decine di altri testi come L'istituzione negata di Franco Basaglia o I dannati della terra di Franz Fanon (p. 130) a ripensare i temi dell'autorità e del potere. Libro "insolito" perché: 1) è un fatto più unico che raro che in Italia si esprima, in modi del tutto autentici, non un senso di frustrazione individuale, ma una rabbia collettiva, consapevole di sé, che sa documentarsi con dati oggettivi 2) è una delle poche volte che, in Italia, il ‘popolo’ prende la parola in prima persona, senza servirsi della rappresentanza borghese, sempre deformante (p. 133).

Non voglio morire signore cioè autore di libro, ma con la gioia che qualcuno ha capito che per scrivere non occorre né genio né personalità perché ci sono regole oggettive che valgono per tutti e per sempre e l’opera è tanto più alta quanto più le segue e s’avvicina al vero. Così la classe operaia saprà scrivere meglio di quella borghese. È per questo che io ho speso la mia vita e non per farmi incensare dai borghesi come uno di loro

Don Lorenzo Milani

Così scriveva Franco Fortini: «La questione è di sapere a chi e a che cosa serve un libro così. Si risponde: alla scuola e a tutti. È una parabola, si dice. I personaggi scolari e insegnanti sono figure di tutti noi. Un momento. La cosa veramente importante è che nessuno di noi leggerebbe il libro se fosse soltanto un contributo ai problemi della scuola dell’obbligo e degli istituti magistrali. Quel che ci fa tenere il fiato è quel passaggio – ora oscuro ora aperto – da un problema particolare, grandissimo quanto si voglia, al tema della rivoluzione salvezza. Dico subito: è un salto, non un passaggio. Al posto del passaggio c’è un uomo, una disperazione, una “mano tesa al nemico perché cambi”, la coscienza delle disuguaglianze, la coscienza: c’è una precettistica stupenda, una retorica di forza classica. Una fede e una letteratura. Non una politica»(p. 135). Dunque libro populista – nel senso di lotta per i valori del mondo subalterno e per l'uguaglianza – che non propone una rivoluzione ma una azione di fede rinnovante. Un testo profetico (p. 136).

La lingua democratica

Sarà Tullio De Mauro negli anni Settanta a «distillare il messaggio della Lettera e inserire don Lorenzo Milani e la sua riflessione linguistica non solo nel canone della storia della scuola ma anche della cultura italiana, in una prospettiva di continuità […]» (pp. 162-163).

La Lettera che comincerà anche a "girare il mondo" e a suscitare interesse e ammirazione in intellettuali del calibro di Fromm, Freire, Illich, Langer, sebbene il suo modello resti atipico rispetto alle pedagogie antiautoritarie molto sviluppate in quegli anni (p. 181). Il libro di Vanessa Roghi segue lo sviluppo della "fortuna" della Lettera sino ai giorni nostri, rivelando le profonde trasformazioni avventute nella scuola e nella società italiana e di come la Lettera sia stata uno dei lieviti più importanti in questo lungo processo di cambiamento sociale.

Di grande interesse è questa riflessione del 1982 di padre Ernesto Balducci riportata dall'autrice: «ha ancora un senso riproporre all’attenzione pubblica Lorenzo Milani?»; la sua risposta è: «il limite di fondo della proposta milaniana è oggi più visibile: non è possibile chiedere alla scuola-istituzione quel che invece può offrire una scuola spontanea animata da un maestro ‘carismatico’. In quanto è un servizio reso a tutti i cittadini, secondo le regole oggettive dello Stato di diritto, la scuola di Stato non può essere progettata facendo affidamento sulla eventualità della ricchezza soggettiva degli educatori». Il carisma non può essere considerato un fattore su cui fondare l’intero sistema educativo, servono strumenti condivisi che siano maneggiabili da tutti (p. 175).

Oggi il problema della scuola sono (ancora) i ragazzi che perde. Le disuguaglianze sociali continuano a segnare in negativo le esperienze scolastiche di molti ragazzi. Scrive ancora Vanessa Roghi: i ragazzi che la scuola perde sono il sintomo di una malattia diffusa che è la separazione tra l’essere e il sapere». Ma, se questo è vero, non basta promuovere tutti, come spesso si è creduto, per assolvere la scuola, «non basta eliminare il sintomo per guarire una malattia che esiste anche tra i primi della classe».

Tutta la narrazione di Don Milani dimostra che la bocciatura è la conseguenza di questa scissione e che bisogna guardare a questa se vogliamo correggere gli errori della scuola.

Don Milani resta dunque un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia pensare all'istruzione come via per realizzare un futuro più dignitoso e rispettoso delle differenze tra le condizioni di partenza degli individui

«Fare le parti uguali tra diseguali. Ma non possiamo pensare al riequilibrio in termini di ‘discriminazione positiva’. Don Milani si esprimeva nel linguaggio dell’epoca che metteva in primo piano gli aspetti socio-economici, ma oggi noi capiamo, e lo conferma anche una sua più attenta lettura, che una redistribuzione delle risorse in termini materiali è insufficiente».

Ha scritto la sociologa Elena Besozzi: «L’esperienza della scuola di Barbiana ci mette di fronte a un paradosso: quello di tener conto, dentro la scuola, contemporaneamente, di due istanze apparentemente contraddittorie, uguaglianza e differenza». Condizioni favorevoli all’apprendimento devono essere cercate anche in ambienti economicamente benestanti. Per restituire fiducia in sé occorre un supplemento di buone relazioni umane, ossia una migliore qualità delle relazioni e non una maggiore quantità di beni disponibili. Il riequilibrio delle risorse non si realizza nell’ascesa sociale o nella diversa distribuzione dei beni, ma sviluppando in misura maggiore la solidarietà umana, la qualità della vita, il rispetto fra le persone (p. 208).

Don Milani resta dunque un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia pensare all'istruzione come via per realizzare un futuro più dignitoso e rispettoso delle differenze tra le condizioni di partenza degli individui. Un prete che deludeva sia i credenti che i laici perché: «né la fede né il suo essere laico erano frutto di una posa, di una strategia o di un artificio, ma la libera espressione del suo modo di essere" (p. 211). Priore eternamente "scomodo" che ci ha insegnato – come scrive con tono poetico Vanessa Roghi che: «il problema degli altri è uguale al mio: uscirne da soli è l’avarizia, uscirne insieme è la politica»(p. 212).

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