Cultura
Il supporto all’impiego nelle persone con disturbi mentali. Un cambio di paradigma?
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno ha ricordato che il lavoro rappresenta la prima e più grave questione sociale da affrontare: se questo è vero per noi "cosiddetti sani", lo è ancora di più per le persone con "disturbi mentali"
di Pietro Piro
Un lavoro proprio per tutti?
Se quello che ha affermato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno, che il lavoro rappresenta la prima e più grave questione sociale da affrontare è vero per noi "cosiddetti sani", lo è ancora di più per le persone con "disturbi mentali". In momenti come quello che stiamo vivendo, in cui il tasso di disoccupazione è molto elevato s'innescano dinamiche – anche violente – di esclusione e marginalizzazione soprattutto nei confronti di tutti i "diversi" che premono con la loro condizione su un mercato del lavoro non sempre desideroso di comprendere la peculiarità di ogni individuo.
Anche se è molto difficile orientarsi con i dati statistici a nostra disposizione, sappiamo con ragionevole certezza che il benessere psicologico in Italia è diminuito tra i giovani e gli adulti e che l’esclusione sociale in particolare dal mercato del lavoro influiscono sul benessere psicologico. Se perdere il lavoro o non riuscire a trovarne uno può condurre a una grave condizione di disagio psichico con conseguenze che possono essere estreme (su questo argomento resta sempre proficua la lettura del volume curato da Anna Simone: Suicidi: studio sulla condizione umana nella crisi (Mimesis 2014) per le persone con "disturbi mentali" l'impossibilità di accedere a un lavoro significa impedire del tutto o rallentare enormemente processi di guarigione che l'attività lavorativa aiuta a concretizzare. Il tasso di disoccupazione degli adulti con malattia mentale è da tre a cinque volte superiore a quello degli adulti senza malattia mentale e queste persone sono costrette a lottare oltre che alle ristrettezze legate alla diminuita offerta di posti di lavoro anche con barriere dovute allo stigma, al pregiudizio e alla discriminazione.
Il metodo IPS
In questo difficile contesto è di grande interesse la recente pubblicazione del volume curato da Angelo Fioritti e Domenico Berardi: Individual Placement and Support. Manuale italiano del metodo per il supporto all'impiego delle persone con disturbi mentali (Bonomia University Press, Bologna 2017). Questo manuale espone i risultati concreti ottenuti grazie all'applicazione del metodo IPS (Individual Placement Support) che prevede un approccio non assistenziale agli utenti, bensì incentrato sull'empowerment personale e la responsabilizzazione, che si concretizza in azioni di accompagnamento e supporto costante e continuativo dell'utente nella ricerca e nell'inserimento sociale e lavorativo. Metodo nato negli Stati Uniti e oggi diffuso e praticato anche in Italia e che consiste in uno specifico supporto dato agli utenti perché possano ottenere un impiego competitivo a cui corrisponda un salario competitivo (impieghi del libero mercato del lavoro accessibili a qualsiasi cittadino in piena salute). La filosofia centrale di questo metodo è la seguente: tutte le persone con disabilità possono ottenere un impiego competitivo integrato, senza una formazione propedeutica e nessuno deve essere escluso da questa opportunità. Il supporto all'impiego non è finalizzato a condurre gli utenti verso standard preconcetti di "preparazione al lavoro" prima della ricerca dell'impiego. Gli utenti sono "pronti al lavoro" quando affermano di voler lavorare (pag. 32). Una filosofia a esclusione zero che cerca d'immettere direttamente nel mercato del lavoro le persone con disabilità senza passare da percorsi preliminari di valutazione e nel minor tempo possibile. Il metodo mira a indirizzare l'utente verso una ragionevole speranza di ricollocarsi nel proprio percorso lavorativo ed esistenziale (p. 73) cercando di elaborare in maniera costruttiva le esperienze traumatiche precedenti che altrimenti finiscono per demoralizzare l'utente (p. 73).
Con questo metodo non si inizia più salendo dal basso, percorrendo i vari step della formazione e dei tirocini lavorativi, per conquistarsi alla sommità il lavoro vero (p. 129). Il lavoro "vero" è il punto di partenza e di arrivo e rappresenta l'obiettivo primario del metodo. I dati che gli autori portano a supporto delle loro tesi sono entusiasmanti e attestano un livello di successo intorno al 40% dei casi seguiti. Di grande interesse – a nostro avviso – queste considerazioni: Molto spesso l'utente è visto come portatore di malattia, di disabilità, di malfunzionamento personale e sociale, di fragilità emotiva – a rischio perenne di scompenso e da preservare da frustrazioni e insuccessi; nella maggioranza dei casi , si ritiene non consigliabile proporre all'utente la ricerca del lavoro vero nel libero mercato. Gli operatori ed i servizi che sostengono questo atteggiamento prudenziale ritengono molti utenti, inseriti inopportunamente nei veri contesti produttivi, siano sottoposti ad un alto livello di stress relazionale e lavorativo e che siano destinati a malessere e crisi sicure. Per questo motivo agli utenti vengono proposti solo percorsi assistenziali e graduali step della formazione e transizione al lavoro, in attesa di un'evoluzione delle condizioni cliniche e di una crescita delle capacità lavorative e relazionali dell'utente, perché "non ce la fa" o "perché non è pronto". La ricerca, la letteratura e l'esperienza IPS hanno ormai ampiamente dimostrato che l'inserimento lavorativo nel libero mercato, con il costante aiuto psicologico ed educativo dello specialista dell'impego e dell'équipe curante, non costituisce un fattore aggravante delle condizioni cliniche dell'utente. La condizione di malattia e le eventuali disabilità influiscono sicuramente sullo svolgimento effettivo delle mansioni lavorative, ma con le appropriate strategie e l'adeguato supporto, non impediscono alla persona di cercare, di ottenere e di mantenere un lavoro (pp. 129-130).
Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell'individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell'internamento. L'assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l'essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l'aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell'asilo
Franco Basaglia, La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione
Esclusione zero
Il metodo IPS cerca, dunque, di mettere al centro le capacità emancipatorie della persona (definita utente o cliente) motivandola e sostenendola in un percorso che non parta dalla limitazione in atto ma dal desiderio di autonomia futura. In questo metodo, per coltivare le risorse degli utenti e aiutarli a interagire con il mondo del lavoro si ritiene utile:
1) Attingere alla loro fonte, alla loro capacità di risolvere i problemi, in particolare, in occasione di eventi stressanti;
2) Dare informazioni atte, più che altro a integrare o migliorare le conoscenze che favoriscono lo sviluppo di strategie di approccio al lavoro;
3) Evitare di relazionarsi in modo simmetrico e sottrarsi alla presunzione di sapere ciò che è giusto fare;
4) Tenersi lontano dalla monopolizzazione dei discorsi;
5) Evitare l'escalation del conflitto;
6) Aumentare il senso di speranza nell'autorealizzazione;
7) Sostenere le capacità sociali attive all'interno della comunità;
8) Coinvolgere i familiari e altre figure di sostegno;
9) Promuovere e sostenere una cultura di accettazione del disagio mentale (pp. 77-78).
E' evidente che sé – come noi riteniamo – le alte percentuali di successo nell'inserimento lavorativo sono dovute alla bontà del metodo, l'IPS impone di guardare al tema dell'inserimento lavorativo delle persone con disturbi mentali con occhi nuovi. In questo ambito è necessario un vero e proprio "cambio di paradigma" che si basi su esperienze nuove e su dati empirici. Questo manuale soddisfa entrambe queste necessità. Può essere considerato una nuova tappa obbligata per tutti quelli che considerano l'inserimento delle persone con disturbi mentali nel mondo del lavoro un segno di civiltà.
Se quello che ha affermato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno, che il lavoro rappresenta la prima e più grave questione sociale da affrontare è vero per noi "cosiddetti sani", lo è ancora di più per le persone con "disturbi mentali". In momenti come quello che stiamo vivendo, in cui il tasso di disoccupazione è molto elevato s'innescano dinamiche – anche violente – di esclusione e marginalizzazione soprattutto nei confronti di tutti i "diversi" che premono con la loro condizione su un mercato del lavoro non sempre desideroso di comprendere la peculiarità di ogni individuo
Educare alla responsabilità
Appare inoltre evidente che, in ogni settore – anche oltre il sociale – dove si applica un metodo di coinvolgimento diretto, che implichi una presa di responsabilità dell'individuo e un relativo recupero di fiducia, voglia d'indipendenza, di libertà e di autonomia si ottengono risultati evidenti e dai quali sembra oggi impossibile prescindere per un discorso sul vivere comune. Oltre i dettagli dei singoli metodi d'intervento (come l'IPS) emerge sempre più una tendenza che deve essere supportata in ogni sua forma: l'uomo può emanciparsi solo a partire da un atto di libertà individuale, da una scelta, da un progetto che sente come proprio. E' ancora oggi prepotentemente il singolo individuo che innesca il cambiamento e compito della comunità è di accogliere questa istanza di libertà, motivarla e sostenerla. Non stupisca dunque l'analisi dell’Oms, quando guardando al lavoro pone tra i fattori di rischio per la salute mentale le pratiche di comunicazione e di gestione; una limitata partecipazione ai processi decisionali e uno scarso controllo sulla propria attività e situazione; inesistenti misure di sostegno per i dipendenti; scarsa flessibilità nell’orario di lavoro e scarsa chiarezza nei compiti e negli obiettivi organizzativi. L'uomo eterodiretto si ammala si annoia e si autodistrugge. Certo, apparentemente sembra essere un docile ingranaggio di una megamacchina che funziona perfettamente. Ma si tratta solo di una valutazione a breve termine. Nessun uomo è fatto solo per obbedire. L'uomo vuole essere e vuole essere sé stesso. Non può vivere totalmente alienato da se stesso, totalmente devoto a cause che non sente sue. Educare alla libertà, al pensiero critico e alla responsabilità sembrano ancora essere le basi per una vita degna di essere vissuta.
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