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La presenza di Dio oggi si chiama Rohingya

Si è concluso con queste parole l’attesissimo viaggio del Santo Padre in Sud-Est asiatico che lo ha portato a visitare due paesi al centro della crisi umanitaria che si sta sviluppando più velocemente. La comunità Rohingya in Myanmar è vittima di una campagna repressiva che l'Onu ha definito un “esempio da manuale di pulizia etnica”

di Regina Catrambone

«La presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya». Si conclude con queste parole l’attesissimo viaggio del Santo Padre in Sud-Est asiatico che lo ha portato a visitare due paesi al centro della crisi umanitaria che, stando alle Nazioni Unite, si sviluppa più velocemente: Myanmar e Bangladesh. Dal primo fin dallo scorso 25 Agosto è partito un esodo senza precedenti che, stando agli ultimi dati, avrebbe portato oltre 624.000 bambini, donne e uomini a oltrepassare la frontiera col Bangladesh in cerca di salvezza. L’ondata di violenze esplose a fine estate 2017 è forse la più dura degli ultimi tempi per questa minoranza musulmana ed apolide la cui storia è una infinita sequela di soprusi e persecuzioni. Precedentemente insediatisi nello Stato di Rakhine, nella parte settentrionale del Myanmar, la comunità Rohingya in questo paese è vittima di una campagna repressiva che le Nazioni Unite hanno definito già dall’11 Settembre scorso un “esempio da manuale di pulizia etnica”.

Da subito con MOAS abbiamo deciso di raccogliere l’appello lanciato il 27 Agosto da Papa Francesco a non dimenticare la sofferenza di questa comunità martoriata e perseguitata. Pertanto, una volta deciso di spostare la missione dal Mediterraneo in Bangladesh, in soli tre mesi abbiamo consegnato 40 tonnellate di aiuti alimentari al governo bengalese e allestito due ospedali da campo –MOAS Aid Station- per garantire le cure e l’assistenza medica di cui i profughi hanno estremamente bisogno. La prima MOAS Aid Station è stata inaugurata il 14 Ottobre a Shamlapur, un villaggio di pescatori, e la seconda a Unchiprang il 10 Novembre. Nella prima settimana di attività a Shamlapur abbiamo visitato 1500 pazienti, mantenendo da allora una media di almeno 300 visite al giorno per singola unità medica. Al di là dell’aspetto puramente medico e tecnico, già discusso altrove, è importante sottolineare quello profondamente umano che tocchiamo con mano giornalmente fra i campi di fortuna dove continuano a confluire moltissime persone.

Chi sopravvive alle persecuzioni è costretto ad intraprendere viaggi pericolosissimi e sfiancanti sia per il corpo che per lo spirito. Oltre ad affrontare una catena di ostacoli alla propria incolumità, non possono neppure curarsi, mangiare o bere a sufficienza mentre si mettono in salvo con mezzi di fortuna.

E oggi finalmente quegli ostacoli, quelle violenze, quelle persecuzioni che incarnano il dramma dei Rohingya non possono più essere ignorati dal mondo, dalla comunità internazionale ad ogni livello.

Con l’abbraccio di Papa Francesco ai 16 profughi che lo hanno incontrato, è stato squarciato il velo di indifferenza su questa immensa tragedia umanitaria. Adesso nessuno potrà più fingere di non sapere.

Nessuno potrà ignorare che nel volto di ogni bambino, donna o uomo sopravvissuti alla barbarie fratricida c’è Dio stesso. In quel fango, fra gli ultimi e i reietti che si fa fatica a curare tutti, si avverte fortissima la presenza di Dio. La vita stessa pulsa più forte lì dove viene messa a repentaglio. Ma Papa Francesco va oltre il semplice abbraccio per dimostrare tutta la sua umanità quando si commuove e, nell’incontro privato, è finalmente libero di pronunciare il nome di questa minoranza perseguitata: Rohingya. Durante tutto il suo 21esimo viaggio apostolico internazionale, infatti, gli era stato suggerito di evitare di nominarli esplicitamente, benché tutti sapessero che proprio quella comunità musulmana vittima di atroci violenze fosse il motivo alla base del suo viaggio. La loro presenza aleggiava sempre quando chiedeva di non dimenticare gli ultimi, i sofferenti, i perseguitati e le vittime dell’ingiustizia. Ma solo prima di ripartire, ha pronunciato quella parola tanto temuta insieme ad un’altra altrettanto potente: perdono.

Papa Francesco ha voluto chiedere perdono a nome di tutta la comunità internazionale che volutamente ignora la sconfinata sofferenza di questi fratelli e sorelle, chiedendo di rinunciare ancora una volta alla “globalizzazione dell’indifferenza” e ad aiutare chiunque si impegni sul campo per mitigare questa crisi umanitaria che assume già contorni di vera e propria catastrofe.

L’intero team MOAS ed io siamo felici ed orgogliosi di percorrere il sentiero di pace, solidarietà e misericordia tracciato dalle parole di Sua Santità animati da un coraggioso spirito di fratellanza che nel volto di ogni persona assistita ci fa vedere un frammento del sale che insaporisce la variegata famiglia umana.

“Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza. Tutti noi siamo questa immagine. Anche questi fratelli e sorelle. Anche loro sono immagine del Dio vivente. Una tradizione delle vostre religioni dice che Dio, all'inizio ha preso un po' di sale e l'ha buttato nell'acqua, che era l'anima di tutti gli uomini; e ognuno di noi porta dentro un po' del sale divino: Questi fratelli e queste sorelle portano dentro il sale di Dio”

*Tratto dal discorso pronunciato da Papa Francesco a Dacca

L'autrice è Co-Fondatrice e Direttrice Moas

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