Mondo

La rinascita delle città-Stato

Anche la democrazia produce tirannia. L'analisi di Parag Khanna, in un libro da meditare

di Marco Dotti

La democrazia unisce, ma la democrazia può anche dividere. Le ultime elezioni americane ne sono la prova: due anni di avvelenata campagna elettorale hanno portato autori come Francis Fukuyama a chiedersi se non sia necessario uno shock politico esogeno, come una guerra o una rivoluzione, per uscire dalla spirale di disaffezione e scontento che sta trascinando sempre più in basso il tono umorale dei regimi di piena democrazia. Forse Trump rappresenta uno shock del tipo auspicato da Fukuyama, ma con quali esiti è difficile al momento capirlo.

Secondo l’istituto di ricerca Gallup, solamente 1/4 degli americani, il 28% per la precisione, si dichiara soddisfatto del modo in cui il proprio Paese viene governato. Solo nel 2013 si era registrato un indice (13%) più basso, ma siamo comunque di dieci punti sotto la media del 38% registrata da Gallup nello storico delle proprie ricerche dal 1971 a oggi. La sfiducia non è generalizzata – come conferma un report di Jim Norman -, ma circoscritta ai politici, ossia agli amministratori.

Le prognosi si sprecano, ma le diagnosi mancano. E se i dati sono questi, osserva Parag Khanna, nel suo La rinascita delle città-stato (trad. di Francesco Motta, Fazi, Roma 2017), il difetto non può risiedere solo nei risultati, ma nel modello stesso. «La democrazia non basta più»: questa la posizione di Khanna, senior Research Fellow al Centre on Asia and Globalisation della National University of Singapore.

Attualmente, osserva Khanna,, «gli Stati Uniti sono molto più un esempio di degenerazione politica che di buona governance». In qualche modo, secondo lo studioso indiano, ciò che gli indici di fiducia registrano è l’assoluto deficit di amministrazione e, al contempo, l’overdose di rappresentanza e, di conseguenza, l’infinita ricerca del consenso che espone gli amministratori della cosa pubblica a ciò che, con molta approssimazione, chiamiamo populismo. Detto in altri termini: quando nessun contrappeso basta e la corretta amministrazione viene soppiantata da una burocrazia acefala, anche la democrazia produce tirannia.

Come uscirne? Khanna recupera la lezione di Platone, per il quale una polis efficiente non poteva che basarsi su due pilastri: una cittadinanza istruita e una classe dirigente saggia. Democrazia sociale e aristocrazia politica, insomma. Khanna propone un modello che chiama «tecnocrazia diretta». Portando due esempi: la Svizzera, come modello di democrazia popolare, e Singapore, come modello di tecnocrazia strategica.

Il terreno è scivoloso, ma non di meno interessante. Che cosa hanno da insegnare i “piccoli Stati” in un mondo multipolare dove la globalizzazione non è solo quantitativa, ma intensiva?

Gli info-Stati sono geograficamente piccoli, ma «la loro capacità di concentrare e controllare i flussi di denaro, beni, risorse, tecnologia, informazione e talento conferisce loro un’enorme forza gravitazionale». La loro geografia economica è importante quanto quella politica. Aperti connettivamente al tempo stesso mantengono alcune caratteristiche dello Stato chiuso di difesa su temi quali le migrazioni sistemiche, il contagio finanziario, l’hacking o il terrorismo

Per Parag Khanna sullo sfondo del XXI secolo si profila un nuovo soggetto ibrido «fra la democrazia diretta svizzera e la tecnocrazia di Singapore». Lo Stato viene qui trattato come «un archetipo in evoluzione». Nel prossimo scenario globale, questa tecnocrazia diretta diverrà un vero e proprio info-Stato (Info State): capace di condensare i flussi informativi (fra i quali il denaro) grazie a connettività sovrane.

Il titolo originale del lavoro di Khanna non a caso è: Technocracy in America. Rise of the Info-State.

L’info-Stato del XXI secolo non si abbandona più, integralmente, alla “mano invisibile” del mercato. In esso «il settore pubblico e il privato uniscono le forze ai fini dello sviluppo di piani strategici economici in grado di garantire il primato». Svizzera e Singapore sono, a detta dell’autore, esempi ancora parziali di info-Stato.

Sono geograficamente piccoli, ma «la loro capacità di concentrare e controllare i flussi di denaro, beni, risorse, tecnologia, informazione e talento conferisce loro un’enorme forza gravitazionale». La loro geografia economica è importante quanto quella politica. Aperti connettivamente al tempo stesso mantengono alcune caratteristiche dello Stato chiuso di difesa su temi quali le migrazioni sistemiche, il contagio finanziario, l’hacking o il terrorismo.

Questi Stati definiscono la loro geografia in base alla connettività, non solo al territorio: l’info-Stato è quindi una piena figura post-democratica che unisce management tecnocratico e legame dal basso. La sua unica ideologia è il pragmatismo, la sua ricchezza è calcolata sulla capacità dinamica di rispondere ai bisogni tangibili di cittadini che non sembrano più disposti a giudicare la democraticità del proprio ordinamento su mere astrazioni ideali. Già Alexis de Tocqueville, d’altronde, aveva messo in guardia dalla «perpetua autoadorazione» dei sistemi democratici. «La democrazia – ha spiegato a Vita Parag Khanna – ha bisogno della tecnocrazia e la tecnocrazia ha bisogno della democrazia».

Il tempo della superbia morale è finito. Quello di un nuovo pragmatismo strategico è forse solo all’inizio.

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