Economia

Un modello di filantropia diffusa: il valore delle Fondazioni di Comunità

Mentre le Community Foundations americane si basano su sovvenzioni di pochi magnati secondo una logica top-down, in Europa si è diffusa la cultura della partecipazione dal basso più democratica e comunitaria. Un intervento di Francesco Occhetta sul nuovo numero di "Civiltà Cattolica"

di Marco Dotti

Le Fondazioni di comunità sono enti non profit di diritto privato con un obiettivo chiaro: migliorare la qualità della vita di una comunità. Il loro "scopo" è incrementare filantropia e cultura del dono il un specifico territorio.

Il valore delle Fondazioni di comunità – spiega Francesco Occhetta s. j. in un suo prezioso intervento, pubblicato sul numero di novembre de La Civiltà Cattolica si basa sul significato di tre termini: «comunità», «economia civile» e «territorio».

Le Fondazioni di comunità vivono nella missione di costruire comunità, basando la propria missione sui fini dell’economia civile, che si propone di sviluppare logiche di inclusione sociale, superando il modello individualista dell’homo oeconomicus

Francesco Occhetta

In questi ultimi vent'anni, osserva Occhetta, molte amministrazioni locali hanno trovato sostegno e aiuto da parte di questo «soggetto politico anomalo, ancora poco noto nella cultura italiana».

Il modello delle Fondazioni di comunità non è nuovo, «ma è maggiormente diffuso nel mondo anglosassone. La prima Community Foundation, infatti, è nata il 2 gennaio 1914 a Cleveland, nell’Ohio, per opera di Frederick Goff, proprietario della Cleveland Trust Company, che è oggi una delle più importanti realtà della filantropia comunitaria americana».

Affermatesi in Europa a partire dagli anni Settanta, le Fondazioni di comunità hanno fatto il proprio ingresso in Italia con la legge n. 218/1990 (la cosiddetta "legge Amato) di ristrutturazione del sistema creditizio, che ha mutato l'assetto delle Fondazioni bancarie. Attualmente, in Italia, ci sono 40 Fondazioni di Comunità presenti soprattutto al Nord.

«Il seme che fa nascere le Fondazioni di comunità», rimarca Occhetta, «attecchisce nei terreni con un humus molto fertile, che permette di generare politiche innovative di welfare e cresce grazie a fondi benefici, come ad esempio i lasciti tramite testamento o le donazioni e relazioni solidali in favore
del territorio». Un genere di filantropia, «che sta maturando nella cultura italiana senza fare rumore».

Si stima che nel mondo le Fondazioni di comunità siano circa 1.860, diffuse in più di 46 Paesi, con un capitale complessivo valutato intorno ai 5 miliardi di dollari. Il 60% di esse ha sede negli Usa, Canada, Australia e Sudafrica, mentre il 70% di tutte le Fdc è nato negli ultimi 25 anni. In Italia hanno cominciato ad attecchire nel 1998, grazie a un’intuizione della Fondazione Cariplo, che ne ha patrocinate 15 nell’arco di 8 anni. I numeri attestano i frutti: sono stati realizzati oltre 30.000 progetti di utilità sociale nei settori dell’ambiente, dell’arte e della cultura, della ricerca scientifica e dei servizi alla persona

Attraverso le Fondazioni di comunità, la filantropia si ridarica nel territorio. Assistiamo inoltre, prosegue Francesco Occhetta, «a un processo di democratizzazione della filantropia, possibile a tutti, in cui il patrimonio delle Fondazioni non è la donazione di una o di poche persone, ma si forma nel tempo
grazie a tante piccole e medie donazioni di cittadini che scelgono di costituire specifici fondi all’interno della Fondazione stessa. Il rispetto della volontà del donatore è una garanzia di sicurezza e di
flessibilità».

Se le Community Foundations americane si fondano su sovvenzioni di pochi magnati secondo una logica top-down, in Europa si è diffusa la cultura della partecipazione dal basso (bottom-up), più democratica e comunitaria.

«Comunità», «economia civile» e «territorio», si diceva. Anzitutto, ricorda Francesco Occhetta, «c’è la missione di costruire comunità, poi la scelta di basare la propria missione sui fini dell’economia civile, che si propone di sviluppare logiche di inclusione sociale, superando il modello individualista dell’homo oeconomicus». Questo superamento deve tenere in debito conto i beni relazionali, lo spirito del dono e l'amore per il proprio territorio. «In questa nuova ottica, il welfare diventa un sistema generativo, dove il cittadino è un soggetto attivo, in quanto protagonista sia nel dare sia nel ricevere aiuti e servizi».

Il modello delle Fondazioni di Comunità rappresenta quindi «un volano di sviluppo verso forme di welfare innovativo, in grado di fornire risposte concrete ai nuovi bisogni». Non a caso, le Fondazioni di comunità «si sviluppano con l’affetto dei donatori, ma non possono sostituirsi al ruolo che la politica deve avere nelle scelte e negli indirizzi dei territori. Per un equilibrio tra poteri è utile che le Fdc rimangano ancillari, senza creare forme di plutocrazia, nella quale le forze che hanno potere economico si impongono al governo».

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