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Sulle isole greche si va verso il disastro umanitario

Gli hotspot di Samos, Lesbos e Chios sono a più del doppio della capienza regolare e in vista dei mesi freddi si temono ulteriori tragedie dopo i tre morti dello scorso inverno. A Mytilini decine di profughi sono in piazza da giorni in sciopero della fame, mentre le associazioni lanciano l'appello Open the islands per fare arrivare le persone almeno sulla terraferma

di Daniele Biella

Gli hotspot sulle isole greche scoppiano: record di presenze – o meglio dire trattenimenti di persone, molte delle quali in attesa di essere deportate come conseguenza dell’accordo tra Unione europea e Turchia – e forte preoccupazione per la stagione fredda in arrivo, che l’anno scorso ha causato tre morti solo sull’isola di Lesbo. Ed è proprio qui, nell’hotspot di Moria, che i numeri sono indecenti: al 24 ottobre 2017 (fonte associazione Rsa, Refugee Support Aegean, su dati governativi) a fronte di una capienza di 2330 posti, il calcolo totale diceva 5571 presenti, ovvero ben più del doppio. Tra questi, donne, bambini e anziani, provenienti anche dalla Siria, così come da Afghanistan, Pakistan e decine di altre nazionalità. Anche a Chios le presenza superano il doppio della capienza: 1944 contro 894, mentre ogni record è infranto a Samos, dove i 700 posti disponibili sono occupati da 2400 persone, ovvero più del 300% in più.


“Una situazione vergognosa che fa chiedere solo una cosa: #OpenTheIslands, aprite le isole”, chiedono le associazioni umanitarie presenti sulle isole, unite in un appello al governo greco e alla Ue, anche solo per permettere a queste persone di arrivare sulla terraferma ad aspettare la loro risposta alla richiesta d’asilo, e non in tende fatiscenti fuori dagli hotspot dato che dentro non c’è più posto. Nel frattempo, da dieci giorni un gruppo sempre più nutrito di profughi afgani sta protestando in una delle piazze principali di Mytilini, la capitale dell’isola di Lesbo, iniziando anche uno sciopero della fame a oltranza.

"L'Unione Europea non è ancora riuscita a fornirci la necessaria sicurezza dopo aver viaggiato in condizioni insicure per cercare rifugio qui. Siamo liberi: sulla base della convenzione sui rifugiati del 1951, la libertà è un diritto fondamentale di ogni profugo e, di conseguenza, ci è stato dato il diritto di scegliere il nostro Paese di destinazione. Nessun Paese ha il diritto di deportarci nelle nazioni da cui siamo venuti via, ma nemmeno in un paese non sicuro. Nessun paese ha il diritto di torturare o imprigionare i rifugiati. Nessuna legge permette una violazione della dignità umana e una costante umiliazione. Vi lasciamo da soli con la vostra coscienza ". È questo il grido di aiuto lanciato dai manifestanti a istituzioni e cittadini europei, molti dei quali trattenuti da mesi nell’hotspot di Moria senza sapere nulla del loro futuro se non una probabile deportazione in Turchia.

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