Mondo
Giorno tre: alle prese con lunghe e faticose esercitazioni
Continua la rubrica di Daniele Biella, giornalista di Vita a bordo della nave Aquarius dell'ong Sos Mediterranée. «C’è stato il drill (esercitazione) generale sulle pratiche di salvataggio in mare. Tutti vestiti con elmetto e giubbotto di salvataggio e divisione dei compiti. Anche noi giornalisti partecipiamo»
Fa uno strano effetto vedere delfini in mare – stupendi nelle loro danze con le onde – e pensare che tra queste stesse acque migliaia di persone hanno trovato sofferenza, e in migliaia di casi la morte (5mila solo nel 2016, l’anno record), nel tentativo di raggiungere l’Europa con imbarcazioni malmesse.
Sono sulla nave Aquarius solo da quattro giorni, uno di preparazione e tre di navigazione, ma già è aumentata a dismisura la consapevolezza di una cosa: tutto questo non dovrebbe accadere, perché il mare è un luogo di bellezza e di vita. E allora fa ancora più impressione vedere tanti giovani, venuti da ogni parte del mondo, farsi in quattro per evitare che anche solo una persona in più anneghi in questa distesa d’acqua, infinita allo sguardo nel luogo in cui siamo.
È stato uno dei momenti più intensi della mia vita quello che ho vissuto oggi pomeriggio, tra le 14 e le 17, quando c’è stato il drill (esercitazione) generale sulle pratiche di salvataggio in mare.
Tutti vestiti con elmetto e giubbotto di salvataggio – giornalisti compresi – e divisione dei compiti: chi va in mare con il rib (gommone) 1, quello che si occupa in modo più diretto di issare le persone in pericolo a bordo, e chi con il rib 2, quello che da dietro segue le operazioni e interviene in caso di necessità, mentre l’equipe medica di Msf è pronta a bordo con le procedure di screening medico per ogni persona recuperata. “Slow but fast” (lenti ma veloci), è l’indicazione della coordinatrice Sar, Madeleine Habib, sembra un ossimoro ma niente di più azzeccato: lenti perché mettere in mare i gommoni con tutte le sicurezze del caso non si fa in pochi secondi, veloci perché non un attimo deve essere perso. E così, primo atto delle operazioni sono i gommoni in mare (vedi la galleria di foto delle varie fasi) con i vari componenti: il responsabile delle operazioni in mare, il mediatore culturale per tradurre le prime indicazioni ai migranti in varie lingue, altri due membri dello staff per posizionare gommoni di salvataggio più piccoli e le cosiddette “banane”, lunghi oggetti gonfiabili dove le persone in acqua possono aggrapparsi nel tentativo di non affondare.
Si va e si viene dalla nave, simulando il recupero di un uomo in mare in ogni sua fase: è in questa situazione che anche noi giornalisti veniamo fatti salire a bordo del gommone partecipando alle attività, ed è qui che capisci davvero quanto sia importante esserci, noi a raccontare ma soprattutto lo staff delle navi di soccorso a salvare quante più vite possibili. Sono attimi importanti, perché per quanto mi riguarda, tocco con mano quanto narrato negli ultimi anni a proposito di operazioni in mare e salvataggi. E penso che potrebbe bastare così: forse in questi giorni di navigazione non avremo rescues, salvataggi, data la stretta libica alle partenze. Da una parte c’è il sollievo che non ci siano migranti in pericolo di vita in mare, dall’altra, ovviamente, l’enorme impotenza per quanto sta accadendo nei centri di detenzione libici alle decine di migliaia di persone respinte dal Mediterraneo o arrivate dai confini a sud nelle scorse settimane.
Penso sia importante la scelta dell’ong Sos Mediterranée di permettere la salita a bordo dei gommoni da parte dei media, ovviamente in uno spazio retrostante, che non intralci le manovre di salvataggio. Prima di salire a bordo, Max Avis, 30enne che ha vissuto finora tra la California e l’Inghilterra e in questa missione responsabile delle operazioni in mare dell’ong, ha tenuto un incontro ristretto con noi quattro reporter e le addette stampa di Sos Mediterranée e Medici senza frontiere, rispettivamente l’italiana Isabella Trombetta e l’australiana Lauren Habib. «Siate più discreti possibile nel vostro lavoro, c’è in gioco la vita delle persone», ci ha chiesto. «I salvataggi in mare sono situazioni tanto drammatiche quanto confuse: se non si lavora in modo impeccabile, è alto il rischio che le persone in pericolo entrino in panico e, da lì, il passaggio alla morte è davvero breve».
Finita l’esercitazione generale, la sera sull’Aquarius arriva presto (anche per il cambio di fuso, avvicinandosi alla Libia gli orologi vanno indietro di un’ora) e la stanchezza si sente. Nonostante questo, ognuno di noi ha la consapevolezza di essere nei momenti cruciali della missione: domattina saremo a 25 miglia marine dalla costa libica, pronti a entrare in azione se necessario, anche perché si prevede mare calmo per molti giorni. Due persone dell’equipaggio sono sempre presenti sul ponte di comando a monitorare il radar e l’orizzonte, a cui si affiancano in shift, turni, gli operatori di Sos Mediterranée. Per alcuni, me compreso, il giorno finisce nella sala mensa, a vedere “L’Imbroglio”, il recente servizio giornalistico sulla Libia dei colleghi Amedeo Ricucci e Simone Bianchi, traducendo in simultanea in inglese per i membri dell’equipaggio non italiani presenti.
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