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I funzionari di un centro di Tripoli: «La situazione è disperata»
A denunciare le condizioni disumane a cui sono costretti i migranti in Libia, non solo Ong e attivisti per i diritti umani ma anche gli stessi funzionari di un centro di detenzione che, ai microfoni della BBC, hanno descritto una situazione insostenibile: i fondi sarebbero finiti e senza donazioni private non si riuscirebbe nemmeno a sfamare le persone
Dopo Ong e attivisti per i diritti umani, a denunciare la situazione disumana dei centri di detenzione libici, arrivano anche i funzionari che, in questi campi di concentramento legittimati dal governo italiano e dalle istituzioni europee, ci lavorano.
Nel reportage della BBC pubblicato venerdì, a cura della giornalista Orla Guerin, oltre alle testimonianze dei migranti ammassati nelle “celle senza aria” di Triq al-Sika, un centro di detenzione di Tripoli dove sono tenuti dietro le sbarre circa 1000 uomini, è stata riportata la preoccupazione dei responsabili del campo che, scrive la giornalista, «hanno voluto che fossimo testimoni» della lunga fila per la colazione dove ad ogni uomo veniva dato una piccolo pezzo di pane, un po’ di burro e un bicchiere di succo annacquato. «Dicono che non hanno finito i soldi per pagare i fornitori e adesso si affidano solo alle donazioni». Intervistato da Guerin, uno dei responsabili del campo ha raccontato che, senza i contributi dei privati, la situazione sarebbe insostenibile. «Se le donazioni smettessero di arrivare sarebbe un disastro», ha dichiarato il funzionario ai microfoni della BBC, definendo «terribili» le condizioni in cui i migranti sono costretti a vivere: «Quando capiscono che il loro viaggio finisce qui, sono completamente distrutti».
È l’ennesima denuncia di una situazione inaccettabile, dopo il quadro disumano tracciato da Joanne Liu, presidente internazionale di Medici Senza Frontiere, che avevamo raccontato qui, e la dichiarazione di Zeid Ra’ad Al Hussein, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, che, proprio venerdì, ha denunciato le mancanze del vertice di Parigi e come «non ci si possa più voltare dall’altra parte per evitare di vedere questa realtà brutale».
«Quelli dietro alle sbarre sono a tutti gli effetti prigionieri che non conoscono la propria sentenza. Possono essere trattenuti per un tempo indefinito, senza nessun processo. La loro unica speranza di rilascio è di essere rimpatriati», scrive Orla Guerin, riportando le storie di alcuni migranti, tra cui quella di Sola, appena tre mesi, la sua giovane mamma aveva provato ad attraversare il Mediterraneo quando aveva appena quattro settimane. «La nostra barca si è rotta e la polizia ci ha arrestato in mare. Da allora siamo stati in cinque prigioni diverse. Non abbiamo abbastanza cibo e non abbiamo il diritto di chiamare i nostri genitori. I miei non sanno se sono viva o morta. Io e il mio piccolo stiamo soffrendo».
Terribile anche la storia di Hennessy, diciottenne del Sud Sudan con un fortissimo accento britannico. Per tre anni aveva vissuto a Londra, dove aveva studiato, poi era tornato nel Paese d’origine con la madre per capire che avrebbe voluto continuare a vivere in Europa e ripartire di nuovo. Un viaggio il suo che dura da oltre un anno, gli ultimi due mesi nel lager di Triq al-Sika. «Ho perso ogni speranza, non so se uscirò mai di qui», dice. «È come l’inferno, anche peggio di una prigione».
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