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«Ciò che accade in Libia lo sappiamo, ma l’unica strada è trattare»

Intervista a Domenico Manzione, magistrato e sottosegretario agli Interni, dopo il rovente agosto in cui le autorità libiche, dopo una serie di accordi con l'Italia, hanno ripreso il controllo delle proprie coste intimidendo anche le navi umanitarie delle ong e, notizia confermata nelle utlime ore dall'agenzia Reuters, affidandosi anche a milizie legate alla criminalità. "L'obiettivo è aprire prima possibile i campi dell'Onu in cui vagliare le domande di asilo", spiega Manzione che, sul fronte interno, auspica "l'approvazione dello ius soli, legge necessaria"

di Daniele Biella

“So perché mi chiami: vuoi sapere se lo ius soli andrà in porto”. “In realtà no, vorrei capire come mai si è data così tanta fiducia alla Libia nel controllare i flussi del Mediterraneo. Ma già che ci siamo: andrà in porto lo ius soli?”. Inizia così una schietta intervista a Domenico Manzione, sottosegretario al ministero dell’Interno, il cui ruolo centrale è sempre andato di pari passo – anche stavolta è così – con parole franche e pesate anche su temi delicati che spesso incendiano gli animi dell’opinione pubblica. Navi delle ong e duro approccio del ministro Marco Minniti, ruolo del Governo nella complessa situazione libica, sviluppi futuri: ecco i temi centrali del dialogo con Manzione.

Iniziamo proprio dallo ius soli – che in realtà è temperato ed è più corretto chiamare ius culturae, dato con la legge in itinere che la cittadinanza italiana non viene acquisita solo dalla nascita sul suolo italiano ma a fianco del completamento di un ciclo di studi – lo davano per spacciato, può tornare nell’agenda politica del Senato per l’approvazione decisiva?
L’ha detto pochi giorni fa il primo ministro Gentiloni, quindi mi auguro di sì: è un provvedimento giusto che va a regolare una situazione difficile, una terra di nessuno in cui si trovano oggi molte persone nate e vissute nel nostro Paese. Dare loro la cittadinanza non è un “regalo” al terrorismo, come qualcuno ha incautamente detto, piuttosto è il contrario: è uno strumento decisivo di inclusione nella vita sociale di una nazione. Il fatto che si avvicinano le elezioni non deve influenzare la decisione su un tema che non ha colore politico.

Ora l'argomento che più crea disagio: quello che accade in Libia e nel mar Mediterraneo. Il ministro dell’Interno, in particolare, ha impostato un netto cambio di marcia, attraverso l’introduzione del Codice di condotta per le ong in mare, mal digerito da ampie parti del Terzo settore, e soprattutto con una serie di intese economiche e politiche con la parte di Libia governata da Sarraj – quella riconosciuta dalla comunità internazionale – che poi ha preso decisioni unilaterali riguardo i salvataggi in mare compresi comportamenti minacciosi verso le stesse navi delle ong, oggi in buona parte ferme nei porti. Come siete arrivati a questa decisione?
Con la consapevolezza che quanto fatto finora è parte di un percorso comune con altre organizzazioni, e mi riferisco a Unhcr, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati e Oim, Organizzazione internazionale delle migrazioni (da qualche anno organo anch’esso delle Nazioni unite, ndr). Li ho incontrati io stesso raccogliendo il loro impegno ad aprire prima possibile strutture di accoglienza temporanea non gestite direttamente dai libici, ovvero in cui tutti gli standard sui diritti umani siano garantiti.

Per fare ciò si deve passare comunque da una relazione diretta con i libici, i cui comportamenti sono sotto gli occhi di tutti, in particolare nei famigerati campi-prigioni in cui sono rinchiusi i migranti in attesa di partire. Ed è fresca la notizia, battuta anche dall’agenzia Reuters, che il crollo degli arrivi in Italia sarebbe dovuto a blocchi in mare imposti da milizie collegate alla malavita locale, quelle che da sempre sono nel business del traffico di esseri umani, spesso corrompendo personale istituzionale libico…
Comprendo pienamente queste preoccupazioni. Prendo in prestito le parole di Filippo Grandi, Alto commissario dell’Unhcr: di fronte a quanto accade bisogna fare una scelta comunque angosciante tra l’esserci ben sapendo di quali interlocutori hai davanti, e il non esserci. È questa la domanda radicale che bisogna porsi, e la risposta per noi è la prima: trattare, mantenendo più alta possibile l’attenzione. So bene che ciò può preoccupare non poco chi segue da vicino la questione, ma ora non vediamo alternative. Proprio perché negli accordi presi con gli stessi libici c’è ora la fase successiva, quella della creazione di campi sotto l’egida Onu. Detto questo, una volta riusciti in questo intento, non è detto però che tutto vada liscio fino in fondo.

In che senso?
L’apertura dei campi umanitari, utili ad analizzare in loco le richieste di asilo senza passare per i trafficanti di morte e il viaggio in mare, è un ulteriore passo intermedio, perché poi, per chi avesse diritto alla protezione internazionale, bisogna approntare in sistema di reinsediamento negli Stati europei, condiviso da tutti i governi della Ue. Visto quanto accaduto finora, con molti Paesi che hanno rifiutato addirittura i ricollocamenti, la strada è in salita. Ma, ribadisco, l’impegno deve andare in questa direzione. Oggi più che mai l’Europa deve rendersi partecipe di quello che accade al di là dei suoi confini.

Nel frattempo, dentro i confini, accadono situazioni clamorose come quella in atto a Roma, tra via Curtatone e piazza Indipendenza: 800 persone rifugiate, ovvero con documenti in regola, eritree ed etiopi sfrattate da uno stabile che occupavano dal 2013 – fin qui, legittimo – ma senza una valida soluzione alternativa. Oggi, quarto giorno in strada per cento di loro che non hanno trovato un rifugio temporaneo, sgombero anche dalla piazza. Come risolvere il problema?
Quando si arriva allo sgombero si tratta di un problema di ordine pubblico. Come ministero, possiamo e stiamo cercando di mettere a disposizione strutture di accoglienza temporanee (è di poco fa la notizia di una proposta comunale di accogliere una parte delle persone in un centro in zona Torre Maura e un’altra parte in abitazioni messe a disposizione per un periodo temporaneo dalla proprietà dell’edificio sgomberato, ndr) per assorbire gradualmente queste persone. Stiamo facendo quanto possibile, di fronte a una situazione molto complessa.

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