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Cina: la nuova “Via della seta” conduce all’Africa
Oltre il 50% degli investimenti previsti dalla Cina per rilanciare la sua economia attraverso la “nuova Via della seta” andranno in Africa. Se le materie prime africane rimangono una risorsa strategica per Pechino, la presenza cinese in Africa si è diversificata e i leader africani, preoccupati dall’aumento del debito con il partner asiatico, premono sempre di più per una vera partnership.
Durante la campagna per le elezioni presidenziali previste l’8 agosto, il presidente uscente del Kenya Uhuru Kenyatta ha fatto delle infrastrutture una priorità assoluta del suo programma. E il ponte Sigiri, situato nella contea di Busia, non lontano dalla frontiera con l’Uganda, era destinato a diventare uno dei fiorelli all’occhiello nel settore dei trasporti kenioti sotto l’era di Kenyatta, al potere dal 2013. Commissionata dallo stesso Kenyatta, la costruzione del ponte affidata alla società cinese China Overseas Engineering Group, filiale di uno delle più grandi imprese costruttrici al mondo, la China Railway Corporation, ha subito una battuta d’arresto due settimane dopo la visita del Presidente keniota nei cantieri, con il crollo della struttura. Bilancio: 27 feriti, ma nessuna vittima.
L’unico a gioire è stato il rivale elettorale, Raila Odinga, pronto a sfruttare l’incidente per annunciare sui media locali “il crollo di chi dirige il nostro paese”. Per Uhuru Kenyatta, dopo la recente inaugurazione in pompa magna della nuova linea ferroviaria che collega la capitale Nairobi al porto di Mombasa (guarda caso con finanziamenti cinesi), il ponte Sigiri è ormai una palla al piede. E i cinesi? Al di là degli inchini e delle scuse, i dieci milioni di dollari spesi per l’ennesima opera infrustrutturale sono una goccia nell’oceano degli investimenti promossi da Pechino sul continente africano. Secondo una ricerca condotta dalla John Hopkins School of Advanced International Studies di Washington, “il commercio sino-africano è passato da dieci miliardi di dollari nel 2000 a 220 miliardi nel 2014, per poi subire un calo dovuto alla caduta dei prezzi delle materie prime”.
Il commercio sino-africano è passato da dieci miliardi di dollari nel 2000 a 220 miliardi nel 2014, per poi subire un calo dovuto alla caduta dei prezzi delle materie prime.
John Hopkins School of Advanced International Studies
“Una cintura, una strada” per l’Africa
Ma il futuro non è compromesso. Lo sostiene McKinsey in un rapporto pubblicato il 28 giugno scorso, in cui la multinazionale di consulenza manageriale e di strategia propone due scenari: il primo, “se il ritmo degli investimenti rimane invariato, le entrate dei gruppi imprenditoriali cinesi cresceranno da 180 a 250 miliardi di dollari nel 2025”. Il secondo scenario è altrettanto roseo, e prevede un’intensificazione di investimenti diversificati – quindi non solo infrastrutture e risorse minerarie, ma anche agribusiness, assicurazione bancaria, telecomunicazioni, logistica – “che consentirebbero alle imprese dell’Impero di Mezzo di superare 400 miliardi di dollari di giro di affari nel 2025.
Queste cifre mirobolanti hanno convinto il regime cinese di mettere l’Africa al centro della “nuova Via della seta” presentata a Pechino nel maggio scorso. Di fronte all’aumento dei costi di produzione dei prodotti cinesi, e il calo conseguente dell’economia nazionale, Pechino spera di rilanciare le sue esportazioni diminuendo i costi di trasporto e di logistica. L’iniziativa del presidente Xi Jinping – “Una cintura una strada” – mira a costruire una rete globale di infrastrutture lungo le quali far scorrere i prodotti cinesi. Come ricorda Sebastien Le Belzic, giornalista e fondatore del sito ChinAfrica, “oltre la metà degli investimenti previsti dalla Cina nell’ambito di questa nuova Via della seta andranno all’Africa”. Gli sforzi saranno soprattutto concentrati nelle installazioni portuarie. “L’accerchiamento del continente attraverso una decina di porti finanziati dalla Cina corrisponde a questa ‘cintura’ evocata da Pechino. Il 90% delle importazioni e delle esportazioni africane si svolgono via mare”.
Oltre la metà degli investimenti previsti dalla Cina nell’ambito della nuova Via della seta andranno all’Africa.
Sebastien Le Belzic, giornalista e fondatore del sito ChinAfrica
Investimenti a tutto campo
Più in generale, “l’offensiva cinese, che vede tra i suoi protagonisti le imprese pubbliche e private, la classe politica e i diplomatici, è il risultato di azioni spontanee e di una strategia ben orchestrata da Pechino”, sostiene il settimanale panafricano Jeune Afrique. “Tutti gli investitori internazionali vedono nell’Africa un’importante riserva di risorse minerarie, tra cui il petrolio angolano e nigeriano, il rame in RDC o in Zambia, oppure l’uranio tanzaniano. Ma mentre gli americani e gli europei percepiscono anche il continente africano come una fonte di instabilità, di migrazione e di terrorismo, la Cina preferisce concentrarsi sulle opportunità”. Ma chi crede ancora che l’interesse di Pechino si sia fermato alle materie prime si sbaglia di grosso. “Del resto”, ricorda Jeune Afrique, “gli Stati Uniti investono molto di più della Cina nello sfruttamento delle risorse minerarie (il 66% degli investimenti complessi americani, il 22% nel caso dei cinesi)”.
Dalla costruzione di una città industriale a Tangeri all’autostrada che attraversa da est a ovest il territorio algerino, passando per il complesso sportivo di Kintélé (Repubblica del Congo), il tram di Addis Ababa, le reti ferroviarie che collegano la Tanzania e lo Zambia o Addis al porto di Gibuti, la centrale elettrica di Adjarala (Togo), la fibbra ottica in corso di installazione in Burkina Faso, la raffineria di Djermaya (Ciad) oppure il progetto faraonico della diga Inga III in Repubblica democratica del Congo su cui sta puntando la China Three Gorges Corporation, i progetti che secondo McKinsey coinvolgono ad oggi oltre 10mila imprese cinesi, il 90% delle quali (a sorpresa) private, riguardano per un terzo il settore manifatturiero, un quarto i servizi, seguiti dal commercio, la costruzione e l’immobiliare.
Fiducia dei privati e interessi diversificati
I primi a trarne profitti sono ovviamente gli imprenditori cinesi. Per i ricercatori di McKinsey, che hanno coinvolto nel loro studio 1.000 imprese sondate nei primi otto paesi partner africani della Cina, “circa un terzo hanno dichiarato di aver generato oltre 20% di margini sui loro affari nel 2015”, mentre “il 74% si dicono ottimiste sul potenziale dell’Africa”.
Se c’è un paese che simboleggia la presenza cinese in Africa, questo è l’Etiopia. Oltre ad accogliere imprese che delocalizzano sempre di più la loro produzione manifatturiera sul continente africano (vedi gli investimenti nei settori del tessile e dell’elettronica nelle zone economiche speciali attorno ad Addis Ababa e l’inaugurazione nel 2016 del più grande parco industriale etiope, l’Hawassa Industrial Park), dal 2000 l’Etiopia è diventato il secondo più grande beneficiario di prestiti cinesi in Africa, con finanziamenti molto diversificati che ammontano a 12,3 miliardi di dollari secondo la John Hopkins University.
Oggi si contando oltre 10mila imprese cinesi, il 90% delle quali sono private. Circa il 74% si dicono ottimiste sul potenziale dell'Africa.
Rapporto di McKinsey
Assieme alle opportunità economiche, l’Africa offre a Pechino – come del resto anche a Washington, Bruxelles, Roma o Tokyo – una riserva di voti importanti alle Nazioni Unite. Non a caso la Cina dispone di 52 missioni diplomatiche sul continente, tre in più rispetto agli Stati Uniti. Inoltre, dei 5 membri che compongono il Consiglio di sicurezza dell’ONU, la Cina è il paese che manda più Caschi blu sul continente africano (circa 2.500 soldati), sparsi tra Congo, Liberia, Mali, Sudan e Sud Sudan. “Avere buone relazioni con i 54 paesi africani è molto importante per la Cina”, assicura Jing Gu, direttrice dell’Institute for Development Studies dell’Università di Sussex, mentre per il giornalista americano ed ex senior writer del New York Times, Howard French, autore di China’s Second Continent, “l’Africa è stato un laboratorio di idee innovative che ha consentito alla Cina di estendere la sua influenza geostrategica a livello internazionale”.
Gibuti: porta d’entrata di una nuova potenza militare in Africa
L’ultimo tassello della presenza cinese sul continente africano ha la forma di una nave di guerra (il Jinggangshan), accompagnata da un semi-sommersibile (il Donghaidao), con a bordo 400 soldati cinesi. La partenza dal porto di Zhajiang in direzione di Gibuti risale all’11 luglio, pochi giorni prima della festa nazionale francese. La scelta della data non è casuale: nel porto di Gibuti, Pechino ha deciso di aprire la sua prima base logistica militare all’estero, con l’obiettivo ufficiale di “supportare le scorte navali in Africa e Medio Oriente, le operazioni di mantenimento della pace dell’ONU e gli aiuti umanitari”, ricorda sul suo blog Antonella Sinopoli. A Parigi non l’avranno presa molto bene: come recita il sito del ministero della difesa francese, oltre all’Operazione Barkhane in Sahel, “le forze francesi stazionati a Gibuti costituiscono il contigente più importante di forze di presenza francesi in Africa e una delle due basi operative avanzate su questo continente”.
Ma i 1.450 soldati d'oltralpe dispiegati in questo territorio grande poco meno della Lombardia, rischiano di non fare il peso di fronte alle 10.000 unità che la nuova base militare cinese è in grado di accogliere da qui al 2026. Per il Presidente di Gibuti, Ismaïl Omar Guelleh, la presenza dei militari cinesi è anche una manna finanziaria: Pechino ha infatti accettato di versare ogni anno 100 milioni di euro per l'affitto del terreno, contro i 60 milioni versati da Washington per il campo militare Lemonnier.
Per la Francia, come per gli Stati Uniti, il Giappone e ormai anche la Cina – le quattro potenze internazionali che dispongono di campi militari a Gibuti – “il luogo è strategico”, sottolinea il giornale La Croix. “Consente di avere un piede nel golfo di Aden e un altro nel Corno d’Africa. Inoltre, offre i mezzi per controllare il distretto di Bab El-Mandeb – la ‘porta delle lacrime’ in lingua araba -, quindi l’accesso al Mar Rosso. E’ anche un modo per difendere e favorire i propri interessi su questa autostrada tra Oriente e Occidente attraverso la quale transita il 40% del traffico marittimo mondiale”.
La prima base militare cinese in Africa, costruita a Gibuti, accoglierà da qui al 2026 oltre 10mila soldati.
Con un porto e una base militare, già al centro di polemiche sollevate ieri con la pubblicazione sul sito della CNN di due immagini satellite messe a disposizione da Stratfor Worldview e Allsource Analysis, la Cina “garantisce la sicurezza marittima della sua nuova Via della seta. Si apre al mercato etiope, il dragone del Corno d’Africa. Consolida la sua presenza in Africa, mostra la sua potenza e si mette nelle condizioni di diventare un giorno il nuovo gendarme del continente. In altre parole, essere in grado di fare domani ciò che la Francia faceva ieri: sostenere militarmente dei regimi in difficoltà in cambio di un partenariato economico e diplomatico a suo vantaggio”.
L’Occidente disorientato
L'offensiva cinese è tutto salvo una sorpresa. Dopo il crollo del muro di Berlino e di fronte alla crescente instabilità dei paesi africani, gli occidentali si sono progressivamente ritirati dal continente, ‘offrendo’ interi settori di attività e territori ai cinesi che, in pieno boom economico, erano alla ricerca di nuove fonti di approvigionamento energetico. Per la Cina, facilitata dalla disattenzione dei paesi europei e degli Stati Uniti, è stata una benedizione. La penetrazione di Pechino è ormai così profonda in Africa che per i suoi principali competitor è molto difficile riconquistare il terreno perduto. Alcune potenze come la Francia ci provano, ma senza farsi molte illusioni, tanto più che la crisi economica ha messo a dura prova i sogni di “grandeur” coltivati dagli ultimi inquilini dell’Eliseo (e che Macron prova a rilanciare). Di fronte all’impossibilità di competere apertamente con i cinesi, Parigi sta optando per una strategia di contenimento basata su una cooperazione tripartita 'Francia-Cina-Africa'.
Di fronte all’impossibilità di competere apertamente con i cinesi, Parigi sta optando per una strategia di contenimento basata su una cooperazione tripartita 'Francia-Cina-Africa'.
Questa almeno sembra essere la direzione indicata da Parigi nel novembre 2016 attraverso la firma di un partenariato con Pechino per l’istituzione di un 'Fondo d’investimenti sino-francese nei paesi Terzi'. Dotato di 300 milioni di euro (suddiviso a metà tra la Francia e la Cina), il Sino-French Third-Countries Investment Fund associa la Cassa depositi francese (Cdc) e la China investment corporation (Cic), con l’obiettivo di raggiungere due miliardi di euro per finanziare progetti imprenditoriali comuni in Africa (un terzo), in Asia (un altro terzo) e nel resto del mondo. “La Cina premeva per un fondo molto più ambizioso, dell’ordine di 50 miliardi di euro”, ha dichiarato a Le Monde un rappresentante di Cdc. “Ma le finanze pubbliche francesi non ce lo permettevano”. E questo la dice lunga sui limiti di una potenza come la Francia di fronte al dragone cinese.
Pechino contrattacca
Molti però continuano a non vedere di buon occhio l’influenza crescente della Cina sul continente africano. I detrattori denunciano un partenariato che Pechino ha sempre definito “win-win”, ma che secondo loro mira allo sfruttamento delle risorse minerarie africane in cambio di infrastrutture e investimenti multisettoriali. Per molti anni, i regimi africani hanno ringraziato, facendo capire agli occidentali che a differenza loro, Pechino rispetta la sovranità nazionale dei loro paesi e “non si immischia in vicende interne che non riguardano le potenze straniere” (dixit Robert Mugabe), cioè la democrazia, i diritti umani e sociali. Altra accusa ricorrente: il fatto che le imprese cinesi impiegano troppi connazionali nei progetti lanciati sul continente africano. “Se le infrastrutture sono accolte positivamente, l’opinione pubblica africana insiste sempre di più sulla necessità di impiegare manodopera locale, da trattare bene”, sostiene Howard French.
Oggi le imprese cinesi hanno capito che è indispensabile interlocuire con la società civile e le ONG internazionali sulle questioni ambientali o sul trasferimento di know-how tecnologico.
Jeune Afrique
Di fronte alle critiche, “le imprese cinesi hanno preso coscienza del problema. Un decennio fa, erano convinte che le loro relazioni con i governi bastassero” per portare avanti il proprio business, sottolinea Jeune Afrique. “Oggi hanno capito che è indispensabile interlocuire con la società civile e le ONG internazionali sulle questioni ambientali o sul trasferimento di know-how tecnologico”. Esempio: “il gigante delle telecomunicazioni Huawei, che realizza il 15% del suo fatturato mondiale in Africa, forma ogni anno 12.000 studenti in centri sparsi in Angola, Congo, Egitto, Kenya, Marocco, Nigeria e Sudafrica”. Intanto, a sorpresa una ricerca della John Hopkins School sfata un altro mito: questa volta sull’esclusione della manodopera africana. Secondo i suoi ricercatori, 80% degli impiegati coinvolti nei progetti cinesi sono africani, che però rimangono esclusi dai posti di lavoro più importanti.
Lo spettro del debito
Una cosa è certa: gli africani hanno una percezione complessivamente positiva della presenza cinese nel loro continente. Secondo un sondaggio realizzato nel 2016 da Afrobarometer in 36 paesi, il 63% delle persone interrogate sostengono che l’influenza cinese è “piuttosto” o “molto” positiva. Tra di loro, il 24% è convinto che il modello economico della Cina è il più adatto al continente africano. A ruota, il rapporto di McKinsey ritiene che “nel complesso la presenza crescente della Cina in Africa è fortemente positiva per le economie, i governi e i lavoratori africani”.
Se le infrastrutture sono accolte positivamente, l’opinione pubblica africana insiste sempre di più sulla necessità di impiegare manodopera locale, da trattare bene.
Howard French, giornalista americano
Ma tra i leader africani c'è chi ormai ritiene questa presenza problematica. In un’intervista concessa al Financial Times, il presidente keniota Uhuru Kenyatta, ha espresso forti preoccupazioni riguardo il deficit commerciale contratto da molti paesi africani con Pechino. “Per qualsiasi paese, il debito commerciale è un problema e in futuro faremo in modo che i prodotti kenioti possano penetrare maggiormente nei mercati cinesi”.
Le perplessità di Kenyatta non sono prive di fondamenta: un rapporto della China-Africa Research Initiative (Cari) dell’Università John Hopkins rivela che nel 2015, i 54 paesi africani hanno registrato complessivamente un disavanzo di 34 miliardi di dollari con la Cina su scambi commerciali pari a 172 miliardi di dollari. Il Kenya, ad esempio, ha importato in quell’anno beni dalla Cina per circa 5,9 miliardi di dollari, soprattutto acciaio e materiale di costruzione ferroviaria, ma l’ammontare dei prodotti kenioti venduti in Cina non ha superato i 100 milioni di dollari.
Un altro problema riguarda i prestiti concessi da Pechino ai paesi africani. Sempre secondo il Cari, tra il 2000 e il 2014 i prestiti concessi dalla Cina (via lo Stato, le banche e le imprese) agli Stati e organismi pubblici africani sono passati da 132 milioni di dollari a 13,59 milliardi, per un totale di 86,9 milliardi di dollari, di cui 21,2 milliardi all’Angola, 12,3 milliardi all’Etiopia, 5,58 milliardi al Sudan, 5,19 milliardi al Kenya e 4,91 milliardi alla Repubblica democratica del Congo. A livello settoriale, il 28% dei prestiti sono stati concessi a favore dei trasporti e delle infrastrutture, seguiti dall’energia (20%), le industrie estrattive (10%), e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (8%).
Il volume di questi prestiti “pone il problema dell’indebitamento dei paesi beneficiari”, sostiene Cédric Le Goff in uno studio pubblicato a giugno dall’Institut de relations internationales et stratégiques (Iris) che valuta i rischi che si nascondono dietro le opportunità nelle relazioni tra la Cina e l’Africa. “Se la situazione diventa troppo difficile, è ipotizzabile una cancellazione totale o parziale del debito, oppure forme compensatorie a vantaggio della Cina come ad esempio la cessione di patrimoni”.
Per qualsiasi paese, il debito commerciale è un problema e in futuro faremo in modo che i prodotti kenioti possano penetrare maggiormente nei mercati cinesi
Uhuru Kenyatta, Presidente del Kenya
Da Nairobi, Patrick Lumumba, direttore della Kenya School of Law, sostiene che “ci ritroveremo talmente indebitati con la Cina che saremo in situazione di grande debolezza non soltanto economica, ma anche politica”.
Una preoccupazione condivisa dalla Jing Gu: “è vitale che i governi africani riprendano il controllo sulle loro relazioni con i partner stranieri, occidentali o cinesi non fa differenza”, assicura la direttrice dell’Institute for Development Studies dell’Università di Sussex. “Questo significa stabilire delle priorità, insistere sul trasferimento di know-how e negoziare secondo le loro condizioni”.
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