Famiglia

Oggi Charlie Gard morirà

Una vicenda che, attraverso le aule dei tribunali, è arrivata ad un epilogo drammatico che solleva interrogativi enormi. Ma che soprattutto introduce un precedente assoluto per quello che riguarda il fine vita, una forma di eutanasia di Stato contro la volontà personale. Ad andare in crisi è il rapporto medico-paziente e l'idea stessa di cura

di Lorenzo Maria Alvaro

Della storia di Charlie Gard, il bambino inglese affetto da una sindrome di deperimento mitocondriale, e della battaglia legale tra i suoi genitori e i medici che lo hanno in cura avevamo già scritto (qui il riassunto di tutta la vicenda).

Nei gironi scorsi la Cedu – Corte Europea dei diritti dell’Uomo, cui i genitori di Charlie Chris Gard e Connie Yates si erano appellati come ultima speranza di bloccare le sentenze britanniche che davano ragione ai medici, ha ribadito che non spetta a lei il compito di sostituirsi alle competenti autorità nazionali. «Le decisioni dei tribunali nazionali», scrive la Cedu, «sono state meticolose e accurate e riesaminate in tre gradi di giudizio con ragionamenti chiari ed estesi che hanno corroborato sufficientemente le conclusioni a cui sono giunti i giudici».

Così oggi a Charlie Gard saranno staccati i macchinari che lo tengono in vita. In particolare la respirazione assistita.

Un epilogo drammatico e straziante che apre interrogativi enormi. Il cuore della questione lo fotografa bene Adriano Pessina, ordinario di Filosofia Morale e Direttore del Centro di Ateneo di Bioetica della Cattolica di Milano e membro ordinario della Pontificia Accademia per la vita.

«Charlie non è un caso giuridico su cui sperimentare nuove interpretazioni delle carte dei diritti e la tenuta delle competenze scientifiche: è un bambino che prima di tutto deve essere custodito nella sua fragilità e in ogni caso, fosse davvero bene sospendere i trattamenti, ha diritto a un accompagnamento alla morte che coinvolga anche i suoi genitori», scrive.

In poche righe sono riassunti i tre punti sostanziali che definiscono la vicenda.

Il primo è l’impossibilità di demandare alla giurisprudenza questo tipo di decisioni. L’onere della decisione e della responsabilità devono essere a carico dei clinici. Non può essere la legge a decidere se Charlie, o chiunque altro, debba vivere o morire.

Il secondo è il rapporto medico-paziente. È del tutto evidente come in questo caso sia totalmente saltato e, anzi, sia arrivato ad un vero e proprio conflitto.

Il terzo, e ultimo, che è bene distinguere tra incurabile e inguaribile. Charlie è inguaribile, ma questo non significa che sia incurabile. Le cure palliative e l’accompagnamento alla morte fanno parte integrante di ciò che intendiamo con cura.

Da qui poi si aprono diversi interrogativi. Assuntina Morresi su Avvenire si chiede «perché tanta fretta nel sospendere la ventilazione assistita?». La Morresi scrive «è troppo forte il sospetto che si voglia porre fine quanto prima alla vita del piccolo, perché oramai già irrimediabilmente segnata. Ma non dobbiamo giocare con le parole: una morte procurata volontariamente ha un nome preciso, si chiama eutanasia».


I genitori di Charlie all'uscita di una delle tante udienze in cui hanno cercato di far valere la potestà sulle scelte mediche per il figlio

E questo è un altro nodo molto delicato della vicenda. Medici e giudici, “nell’interesse del neonato”, impongono la sospensione dei sostegni vitali di un bambino che però, pur grave e destinato a peggiorare, è vivo. Questa è una forma eutanasica però totalmente inedita. Tutto questo infatti accade contro il volere della potestà genitoriale, e quindi contro il volere dell’interessato. Una sorte di eutanasia di Stato. Qualcosa che neanche nei paesi come l’Olanda, che pure ammettono e hanno normato le pratiche eutanasiche, si è mai vista.

Non si vuole con questo affermare che medici e giudici abbiano questo come scopo del proprio agire. Ma sicuramente la gestione della vicenda doveva e poteva essere diversa. Anche per non incorrere in questo tipo di precedenti.

Che altro si poteva fare? Secondo Pessina la cosa migliore sarebbe stata quella di «demandare una decisione al comitato etico dell’ospedale. Con tempi e modi molto meno sincopati adendo ad una strada meno conflittuale».

Anche la Conferenza episcopale inglese ha sottolineato come «la malattia terminale prolungata fa parte della condizione umana: non dovremmo mai agire con la deliberata intenzione di porre fine alla vita umana, compresa la rimozione dell’alimentazione e dell’idratazione che potrebbe provocare la morte. Dobbiamo, tuttavia qualche volta riconoscere i limiti di ciò che può essere fatto, mentre si agisce sempre umilmente al servizio del malato fino al momento della morte naturale».

Per i vescovi inglesi infatti «In questo difficile caso tutte le parti hanno cercato di agire con integrità e per il bene di Charlie, ciascuno secondo la sua visione. Comprensibilmente, i genitori di Charlie desiderano fare di tutto pur di salvare e migliorare la sua vita».

A questo si aggiunge il commento di Antonio Spagnolo, direttore dell’Istituto di Bioetica dell’Università Cattolica di Roma che oltre a confermare come «sia un errore pericoloso lasciare certe scelte ai giudici. Decisioni che dovrebbero rimanere nell’ambito del rapporto tra il pediatra e la famiglia o tra il pediatra e il bambino laddove fosse possibile», fa luce anche sull’altro grande dilemma del caso, le famose terapie alternative americane cui avrebbero voluto accedere i genitori di Charlie: «da quello che risulta i medici Usa avevano fatto esperimenti soltanto su topi e su casi di bambini con caratteristiche diverse. Si sarebbe trattato di un intervento fatto per la prima volta su un caso di questo tipo che sul piano scientifico non aveva fondamenti. Si tratta quindi anche di stare attenti ad illudere i genitori su trattamenti che possono poi in realtà non avere beneficio». E Spagnolo chiude il suo commento concordando con Pessina, «l’ambito più corretto all’interno del quale devono avvenire queste decisioni è il Comitato Etico. La consulenza etica rappresenta un punto cruciale all’interno delle decisioni mediche».

Ancora una volta, dunque, il nodo della vicenda finisce per essere quel rapporto medico-paziente su cui così poco ci si concentra ma che costituisce la base di ogni cura. E allora perché non immaginare la possibilità per i genitori di Charlie di affidarsi ad altri medici, o ad altre strutture.

«Nelle nostre case famiglia accogliamo tanti bimbi come il piccolo Charlie. Dalla nostra esperienza quotidiana al loro fianco possiamo dire che la sofferenza non è data dall’handicap o dalla malattia ma dalla solitudine che si crea a causa di queste condizioni», racconta Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, «sarebbe giusto permettere ai genitori di accompagnare il loro bimbo a concludere con dignità la sua breve vita terrena».

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