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3mila ragazzi fuori famiglia. Che succede a 18 anni?

Viene presentata domani nel corso di un convegno la ricerca realizzata dall'associazione con l'University College of London "Una risposta ai care leavers: occupabilità e accesso al lavoro dignitoso". Perché il problema, ricorda Fabio: «Hai una specie di ultimatum... il tuo progetto a 18 anni finisce ed è lì il problema!»

di Antonietta Nembri

Sono circa tremila ogni anno i neo maggiorenni che in Italia escono dalle strutture di accoglienza «e di loro non si sa più nulla», osserva Samantha Tedesco, responsabile programmi e advocacy di Sos Villaggi dei Bambini Italia. «Quanti di loro ce la fanno? E quanti invece ricadono in un percorso di assistenzialismo?», si chiede Tedesco che sottolinea un altro aspetto: «Sull’accoglienza di questi ragazzi, sui loro percorsi di crescita viene fatto un investimento che finisce al raggiungimento dei 18 anni. Non si verificano gli esiti, non c’è un supporto nel percorso verso l’autonomia, inoltre molti di loro a questa età non hanno terminato gli studi».

Per cercare di capire il fenomeno è stata realizzata la ricerca “Una risposta ai care leavers: occupabilità e accesso al lavoro dignitoso” che sarà presentata da Sos Villaggi dei Bambini in un incontro in programma a Roma il 25 maggio (dettagli dell’evento in agenda). Occasione per conoscere le buone prassi in campo non solo in Italia, ma anche negli undici Paesi nei quali Sos Children’s Villages International ha realizzato una ricerca coordinata dal London University College.

«È una realtà a macchia di leopardo», continua Samantha Tedesco. «In Sardegna, per esempio, ai ragazzi in uscita è erogato un fondo per tre anni. Di contro molti tribunali per i minorenni non danno più il “proseguo amministrativo” che permette di continuare ad assistere i giovani fino ai 21 anni e accompagnarli all’autonomia». Compiere 18 anni non vuol dire diventare automaticamente adulti «soprattutto in un Paese come il nostro, nel quale i ragazzi restano in famiglia fino a 30 anni e che conta il più alto numero di Neet d’Europa, ci sono questi giovani fragili ai quali si dice: siete adulti arrangiatevi» osserva ancora Tedesco che cita l’esempio contrario della Finlandia «lì se non si vuol dare il proseguo amministrativo occorre motivarlo per iscritto, da noi è il contrario».

Non è un caso quindi che il una nota stampa è stata riportata la frase di Fabio, 21 anni, uno dei care leavers che interverranno al convegno di domani. «Hai una specie di ultimatum… il tuo progetto a 18 anni finisce ed è lì il problema!». Per Fabio è stato importante iniziare un inserimento lavorativo già a 17 anni in una cooperativa sociale, nel momento in cui aveva abbandonato la scuola, al termine di questo periodo ha iniziato una serie di lavori occasionali in un settore più vicino ai suoi interessi e ricominciato a frequentare la scuola con un percorso formativo serale. Al quel punto gli viene proposto di passare dall’altra parte: diventare educatore «quindi dall’essere stato utente per un anno e mezzo diventare operatore e gestire io stesso persone e ragazzi che attraversano un momento di disagio». Ricorda ancora Fabio «mentre per il lavoro e per gli altri progetti che seguo c’è sempre stato uno stimolo esterno, sia da parte dell’educatore sia da parte di persone che hanno avuto un ruolo abbastanza importante nella mia vita, per la scuola l’idea è venuta da me. È stata la prima volta che ho preso in mano la situazione. Se l’educatore è quello che voglio fare e se è l’ambito sociale quello che voglio intraprendere devo continuare a finire la scuola». Oggi Fabio è pronto per il percorso universitario, ha un lavoro part-time, spese di affitto limitate in quanto è inserito in un progetto di appartamento in condivisione (finanziato dalla provincia e gestito da una realtà locale in partnership con l’associazione Agevolando) che offre opportunità ai ragazzi che escono dai percorsi di accoglienza.

Dei 3mila ragazzi (stima del network di associazioni che si occupano di accoglienza “#5buoneragioni per accogliere i bambini e i ragazzi che vanno accolti”) «due terzi di loro non tornano alle famiglie d’origine: che fine fanno? Noi come Sos Villaggi dei Bambini continuiamo a seguire diversi ragazzi, sia nel proseguimento degli studi sia nell’accompagnamento all’autonomia con tirocini lavorativi. E come noi ci sono altre realtà che lo fanno con i propri fondi», conclude Tedesco. «L’incontro di Roma vuole essere un appello e allo stesso tempo un’occasione per ascoltare le voci di alcuni di questi giovani».

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