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Zaccaria (Cir): “Più trasparenza per le ong in mare? Sì, per la loro tutela”
"L'attenzione verso l'operato delle navi delle organizzazioni non governative è stata impropria, ha sollevato generalizzazioni dannose a tutti", sottilinea il presidente del Consiglio italiano rifugiati. E lancia l'idea di "una white list di chi opera rispettando le regole, a fianco però di un cambiamento radicale di prospettiva, contro l'ipocrisia delle frontiere europee chiuse: è ora di far nascere in Italia centri di accoglienza strutturalmente europei, ovvero con un'immediata distribuzione dei migranti in tutta Europa"
Sulla questione del ruolo delle navi in mare che salvano migranti c’è da dire una cosa, dopo settimane di baillamme mediatico: al netto delle conseguenze negative sulla percezione di tale ruolo da parte di buona parte dell’opinione pubblica – la cui visione distorta e veicolata da ipotesi attualmente senza fondamento qualifica come “taxi del mare” quelle che invece sono riconducibili a vere e proprie “ambulanze del mare” – la reazione di molti altri, da cittadini a operatori umanitari o dell’informazione, è stata quella di un’operazione chiarezza che, poco alla volta, sta dando i propri frutti per parlare seriamente del tema senza rinchiuderlo in un ring di pugilato. Vita.it ha raggiungo in tal senso Roberto Zaccaria, presidente di Cir onlus (Consiglio italiano per i rifugiati), uno degli enti che da più tempo si occupa di persone richiedenti protezione internazionale e, in particolare, uno dei pochi ad avere una presenza fissa nell’inferno della Libia, il vero buco nero del traffico di esseri umani: qui, a fianco dell’agenzia dell’Onu per i rifugiati, Unhcr, e in collaborazione con Unicef Tunisia e i ministeri italiani di Interno ed Esteri, porta avanti complicate ma importanti attività di monitoraggio e di denuncia delle condizioni di detenzione nei centri per migranti libici.
L’immagine delle ong è messa a dura prova dalle supposizioni del procuratore Zuccaro e dalla ricaduta mediatica?
Di certo è un tema che ha sollevato una sensibilità marcata da parte dell’opinione pubblica. Tutti i giornali e le tv ne parlano in prima pagina da molti giorni, e come tutti i temi che arrivano a tali livelli, l’influenza sulla popolazione è inevitabile. Ma l’attenzione che si è sollevata è stata fin dall’inizio impropria. Ovvero sarebbe stata propria se presentata all’inizio nella sedi di competenza, per esempio con un Rapporto in Parlamento che successivamente avesse portato un magistrato a indagare. Così, invece, il risultato è stata una generalizzazione pericolosa che genera rifiuto verso chiunque sia coinvolto in questo processo che finora non ha consistenza nel modo più assoluto.
Cosa consiglierebbe ora alle ong coinvolte?
Anteponendo il fatto che come Cir siamo completamente d’accordo con l’utilità della presenza della navi delle ong in mare a fianco della Guardia Costiera, userei l’occasione ribaltando la questione, cercando di anticipare le domande che verranno poste a breve, ovvero quelle verso una maggiore trasparenza anche agli occhi dei donatori. Mi spiego: per rassicurare le persone a cui viene poi chiesto sostegno economico, bisogna far capire loro la linearità dell’impegno in mare, attraverso pochi ma chiari concetto. Primo, l’importanza fondamentale di salvare le vite in mare, a ogni costo. Secondo, quanto sia difficile e straordinario il lavoro di chi salva, che sia lo Stato attraverso la Marina militare o le ong in piena sussidiarietà. Più si conosce l’operato, più si tutela chi lo fa. Per questo ritengo giusto che si debba procedere con un’operazione trasparenza che, vedendolo non come un’imposizione ma un’opportunità per fare chiarezza, possa prevedere anche l’identificazione di chi salva e la pubblicazione dei finanziamenti, cosa indispensabile soprattutto per quanto riguarda quelle imbarcazioni che battono bandiere diverse dalle sedi ufficiali di appartenenza.
Si stanno svolgendo in questi giorni le audizioni parlamentari. La presenza delle ong in aula per rispondere alle domande delle varie Commissioni va in tale direzione?
Sì, è opportuno che tutte le ong che operano in mare vadano a parlare, per stabilire un rapporto diretto e chiaro con le autorità. La correttezza del comportamento di queste imbarcazioni, confermata di recente anche dalle autorità della Guardia Costiera per quanto riguarda le regole di ingaggio – se ci sono state eccezioni come sconfinamenti in acque territoriali libiche, si sono risolte senza infrazioni ufficiali rilevate dalla Guardia costiera stessa e quindi erano motivate all’interno del modus operandi generale – può andare di pari passo con la creazione, per esempio, di un elenco positivo di chi opera in modo totalmente trasparente in mare. Una sorta di white list in cui inserire chi non lascia domande non risposte sul proprio operato. Per chi non dovesse rispondere a tutte le domande, la Marina può regolarsi di conseguenza nel momento in cui si trovi ad avere bisogno delle navi. Si tratta di una doppia tutela, a vantaggio di chi opera correttamente – se mai ci fosse qualcuno che non lo faccia – e delle stesse istituzioni. Detto questo, collegato a tale questione c’è un problema sostanziale che va affrontato in modo urgente.
Quale problema?
Sulla questione degli arrivi dalla Libia non c’è da girarci intorno: le persone arrivano in Italia, non in Europa. Nel senso che l’Unione europea ha chiuso le frontiere, l’ulteriore riforma di Dublino langue nelle sedi istituzionali, e quindi il carico maggiore degli arrivi ce l’ha il nostro Paese, da tempo. Per questo è ora di fare un cambiamento di rotta decisivo: i porti di approdo devono diventare ufficialmente luoghi europei su suolo italiano, ovvero con una giurisdizione comunitaria. Gli hotspot, luoghi di prima accoglienza attualmente esistenti, hanno personale europeo ma sono considerati territorio nazionale, invece ci vuole qualcosa di più: questi nuovi luoghi devono essere strutturalmente europei, la gestione degli arrivi e soprattutto della successiva accoglienza deve essere fatta fin da subito in un’ottica di ripartizione europea immediata. Questo supererebbe i limiti di Dublino e sarebbe la mossa per completare un sistema che ora, oltre a continuare a generare morti in mare, non funziona nell’anello finale della redistribuzione.
Ci sono le prospettive a breve termine, di un cambio di passo di tale portata?
Sì. L’Unione europea ha ragionato su come trovare siti nucleari transnazionali, perché non creare siti di accoglienza allora? Non solo in Europa, anche nei Paesi di transito, imparando però dagli errori fatti finora. Bisogna agire, e presto. Altrimenti si smetta con le ipocrisie e si tolga dal Trattato fondativo della Ue ogni riferimenti ai principi di solidarietà, visto che non si stanno rispettando.
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