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La storia di Gabriele del Grande, scritta di suo pugno

Il giornalista e documentarista recluso dal 10 aprile in un carcere turco si era raccontato su il numero di Vita del luglio 2014. Dalle prime ricerche da giovane studente, ai viaggi in giro per il mondo, fino al film “Io sto con la sposa” che lo ha consacrato. Il percorso che lo ha portato alla scelta di disobbedire alle leggi ingiuste per dire che «nessun essere umano è illegale»

di Gabriele Del Grande

Gabriele Del Grande è un giornalista e documentarista italiano di 35 anni. È nato a Lucca e vive a Milano. Era in Turchia dal 7 aprile per realizzare delle interviste a dei profughi siriani per il suo ultimo libro Un partigiano mi disse, un’opera sulla guerra in Siria e sulla nascita dell’ISIS. Dallo scorso 10 aprile si trova in un carcere turco, dopo essere stato fermato dalla polizia ad Hatay, provincia sud-orientale al confine con la Siria. Il 15 aprile il ministero degli Interni aveva fatto sapere che del Grande stava bene e martedì 18 aprile, per la prima volta dopo nove giorni, lo stesso Del Grande ha potuto fare una telefonata: le sue parole sono state trascritte e pubblicate sulla pagina Facebook di “Io sto con la sposa”, il documentario che il giornalista ha diretto insieme ad altre tre persone nel 2014. Tra le altre cose, Del Grande dice che si trova a Muğla, sulle coste della Turchia, e che inizierà uno sciopero della fame. Nel frattempo, il ministero degli affari Esteri ha diffuso una nota in cui si chiede che il giornalista «sia rimesso in libertà, nel pieno rispetto della legge».

Nel 2014 Del Grande aveva scritto per Vita la storia di copertina del numero di luglio dal titolo “Uomini a perdere”. Un lungo racconto di come era arrivato a occuparsi di migranti.



All’inizio erano soltanto numeri. Dati pescati meticolosamente negli archivi online delle principali agenzie stampa internazionali, a cui avevo avuto accesso grazie a una serie di password craccate passatemi da amici della stampa nazionale. Era l’estate del 2005 e a Roma faceva un gran caldo. All’epoca lavoravo ancora come cameriere in un ristorante di periferia, Roma Nord, la Bufalotta. E tra un battesimo e un matrimonio, trovavo il tempo la notte per aggiornare la mia ricerca. Non sapevo ancora cosa ci fosse dietro a quei numeri, ma ne coglievo la gravità. L’operazione era estremamente semplice: mettere in fila le notizie dei naufragi sulle rotte nel Mediterraneo e calcolare quante persone erano morte annegate. Il risultato era spaventoso. Più di ventimila morti dal 1988. Eppure su quella tragedia pesava un silenzio assordante. Il primo articolo lo pubblicai sull’agenzia stampa Redattore Sociale, con cui avevo appena fatto uno stage. Pochi mesi dopo, nel gennaio 2006 decisi di mettere tutto online e creai il blog Fortress Europe. Ancora credevo nella forza dei numeri. Ma ero soltanto un ingenuo ventiquattrenne con una formazione scientifica…

Me ne accorsi molto presto. I numeri non aprivano nessuna breccia nel racconto dominante sulla frontiera. Certo non mancarono prime pagine, interviste, passaggi televisivi. Ma era soltanto il circo della comunicazione. Serviva altro, mi dissi. Servivano le storie. Ventimila morti non vuol dire niente, Mariam o Adama vogliono dire tutto. Vogliono dire un nome, una persona, una vita.

Avevo fatto un anno di palestra in agenzia stampa. Ma il giornalismo che immaginavo era un altro. Era un giornalismo in viaggio e in ascolto. Senza politici né uffici stampa. Ma con tanta vita, storie e cultura. Quando partii avevo in tasca un biglietto di sola andata per Casablanca. Ritornai in Italia tre mesi dopo, senza più un euro ma con centinaia di pagine di appunti e diari di viaggio.

Uscì il mio primo libro, Mamadou va a morire. Era un libro di storie. Cercavo di restituire il senso della gravità del momento storico attraverso le biografie degli avventurieri che tentavano di risalire il mare in direzione contraria alle leggi. Dopo quel viaggio non mi sono più fermato. Ho girato tutto il Mediterraneo e buona parte dei paesi del Sahel, per anni. Quei viaggi non sono stati soltanto la mia avventura di formazione. Quei viaggi hanno cambiato il mio sguardo.

Perché si fa presto a dire storie, ma per liberarsi dal peso dell’immaginario collettivo serve molto lavoro. Serve molto lavoro per evitare di riprodurre inconsapevolmente lo stereotipo, il razzismo in buona fede, o quello sguardo compassionevole e pietistico che tanto piace perché auto-assolve che si accontenta di soffrire due minuti ascoltando le parole della vittima. Serve molto lavoro e serve molta bellezza.

La bellezza che i chilometri e il tempo condiviso mi hanno insegnato a vedere in quelle storie che prima mi provocavano solo indignazione. Quelle che erano le mie vittime sono diventati i miei eroi. Ne ho imparato a vedere la bellezza, la forza, la dignità, la determinazione.

E quando nel 2011 sono andato a Tunisi a seguire la rivoluzione, ho trovato gli stessi ragazzi, la stessa gioventù che prima andavo a incontrare nei quartieri popolari. E lì ho capito che non soltanto la loro rabbia era la stessa. Ma che anche la loro ribellione era la stessa. Che scendere in piazza a sfidare il tiro dei cecchini del regime per riprendersi il futuro era esattamente come salire in barca a sfidare la morte in mare per riprendersi lo stesso futuro. Nella scelta di chi viaggia senza passaporto sfidando non solo il mare ma anche le leggi europee sull’immigrazione, c’è un elemento di disobbedienza, di ribellione. C’è un riconoscimento del primato dei propri desideri, del primato della propria libertà, della propria ricerca della felicità (quando anche solo presunta).

E allora il passaggio successivo non poteva non essere l’assunzione di quella disobbedienza nelle mie e nelle nostre scelte. Ci siamo arrivati un po’ per caso.
Era l’ottobre scorso a Milano. Insieme a degli amici italiani, siriani e palestinesi, abbiamo conosciuto cinque palestinesi e siriani scappati dalla guerra e giunti a Milano dopo essere sbarcati a Lampedusa. E abbiamo deciso di aiutarli a continuare il loro viaggio senza documenti verso la Svezia, dove volevano chiedere asilo. Visto che stavamo commettendo un reato (favoreggiamento dell’immigrazione clandestina), abbiamo scelto un travestimento per non destare sospetti in frontiera: ci siamo travestiti da finto corteo nuziale! E visto che c’eravamo, abbiamo filmato tutto e l’abbiamo fatto diventare un film. Si intitola Io sto con la sposa e lo stiamo producendo dal basso su internet.

L’obiettivo è essere selezionati alla Mostra del Cinema di Venezia e di farne un film manifesto che riapra un dibattito sulle leggi che hanno trasformato le nostre frontiere in cimiteri. Perché il diritto non è neutro. Lo ha scritto Hanna Arendt e lo insegna la storia. Le leggi sono scritte da uomini e a volte sono scritte male. Crediamo sia arrivato il tempo di disobbedire. Di dire che nessun essere umano è illegale. E che i 20mila morti in mare di questo ventennio non sono vittime della burrasca, ma delle leggi che hanno impedito loro di viaggiare in aereo con un visto sul passaporto.

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