Politica

Figli badanti e sandwich generation: a che punto è la legge sui caregiver?

Un milione di italiani si prende cura di genitori non autosufficienti. Quasi il 40% di chi lavora ha un famigliare a cui dare assistenza. Il tema del riconoscimento del lavoro di cura non è solo una questione individuale ma sociale. Il Senato in questi giorni sta esaminando tre proposte di legge sul tema. Ecco il punto

di Sara De Carli

Figli badanti, storie di «eroi per casa». Il Corriere della Sera dedica oggi una doppia pagina a quel «milione di italiani che dedicano un pezzo importante delle loro giornate (e nottate) ad assistere genitori o parenti non più autosufficienti». Storie «di sacrifici e rinunce, a volte di eroismo, spesso di sofferenza». Un «lavoro difficile», quello del «figlio badante» e con le sue malattie professionali.

A giorni è attesa in Commissione Lavoro del Senato la presentazione di un testo unificato, per procedere con l’esame delle tre proposte di legge presentate per dare riconoscimento e supporto alle persone che danno assistenza a un parente. Con il riconoscimento entrerebbe quindi anche nella legge italiana il termine già usato nei paesi anglossassoni: caregiver famigliari.

I testi in esame sono tre, piuttosto differenti fra loro: il 2048 di Cristina De Pietro, Misure in favore di persone che forniscono assistenza a parenti o affini anziani; il 2128 a firma di Laura Bignami, Norme per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare (lo abbiamo presentato qui) e il 2266 a firma di Ignazio Angioni, Legge quadro nazionale per il riconoscimento e la valorizzazione del caregiver familiare (ne abbiamo parlato l’anno scorso in occasione della presentazione della pdl). Nell’ultima seduta della Commissione Lavoro Maurizio Sacconi, il presidente, ha evidenziato «la necessità di un confronto con il Governo volto in via preliminare a individuare le risorse disponibili. A fronte dell'impossibilità del Governo di quantificare al momento stanziamenti sufficienti, suggerisce di definire, prima di tutto, la figura del caregiver familiare come presupposto normativo di future misure di sostegno finanziario da attuarsi con la legge di stabilità o con altri provvedimenti. In questo modo si potrebbero riconoscere immediatamente adeguate tutele alla figura, affidando a successivi interventi l'allocazione delle risorse». Proposta dinanzi a cui il senatore Angioni ha ricordato che «il tema è da quattro legislature all'attenzione del Parlamento» e ribadito che è «assolutamente necessario giungere a una tipizzazione della figura, senza per questo nascondersi le carenze dei servizi pubblici alla persona» e ha suggerito «al Governo una verifica su alcune misure che ritiene assolutamente essenziali, come le detrazioni fiscali o l'estensione al caregiver dei benefici della legge n. 104».


Loredana Ligabue è la direttrice della cooperativa Anziani e non solo, di Carpi e segretaria dell’Associazione Carer, che in Emilia Romagna riunisce associazioni e famigliari, un primo nucleo di movimento per i diritti dei caregiver famigliari. Ha lavorato dal basso sia per la legge regionale dell’Emilia Romagna, approvata nel marzo 2014, la prima in Italia a riconoscere la figura del caregiver famigliare, sia per proposte di legge depositata al Senato da Ignazio Angioni.

Che novità ci sono sull’iter della legge?
Attendiamo il testo unico. Era atteso per il 29 marzo, se servono alcuni giorni in più per avere un testo migliore, d’accordo. Intanto per la prima volta su questo provvedimento sono state fatte delle consultazioni via web, la Commissione Lavoro cioè ha audito molte realtà esperte chiedendo l’invio di note di commento, memorie, documenti: questo ha molto velocizzato le audizioni, è stata una scelta positiva e ha consentito di incontrare molti soggetti. Spiace che alcune realtà, anche grandi, abbiano scelto di non inviare materiali per dissenso rispetto alle audizioni via web, non di persona.

Perché serve una legge sui caregiver famigliari?
Il senso forte della proposta del senatore Angioni rispetto ad altre proposte più mirate su gruppi particolari, ad esempio chi assiste disabili gravissimi, è l’avere un approccio sociale al tema dei caregiver. Non possiamo approcciarci ai caregiver come a un target, un gruppo particolare, singoli individui: quello del dare cura è un problema che ha assunto un peso importante e che crescerà ancora, legato alla demografia. Ormai è un aspetto pervasivo della nostra società e come tale dobbiamo trattarlo. La non autosufficienza sarà sempre più non l’esperienza di un tempo breve, ma una realtà di 8-12 anni. E lo sarà per numeri sempre più elevati di anziani. Questo genera un cambiamento di paradigma, bisogna tenere conto di questo cambiamento sociale e demografico, che riguarderà milioni di persone. Questo è l’approccio della proposta di legge 2266.

Però c’è chi sottolinea che non sono previsti benefici rilevanti, come ad esempio i contributi per avere il prepensionamento. Perché il riconoscimento non è solo una parola?
Il riconoscimento è fondamentale perché da lì discende tutto. Senza quello non ho un soggetto a cui riconoscere diritti. Diritti della persona che assiste, non della persona con disabilità o non autosufficiente, distinguiamo bene. Perché non è che io per il solo fatto di essere famigliare di una persona con disabilità o non autosufficiente ho dei diritti: i diritti della persona con disabilità sono in capo a lei, io ho dei diritti nella misura in cui intervengo a dare assistenza a quella persona. Noi prevediamo che nei progetti assistenziali individualizzati e nei progetti di vita venga scritto quali compiti si assume il caregiver famigliare, dando così uno “strumento” formale per pesare il carico di cura del famigliare e qui c’è spazio per riconoscere tutte le sfumature delle diverse situazioni esistenti. Il caregiver famigliare però è dentro la rete dei servizi, accanto agli operatori. Per noi la cura non è un fatto privato, tra il caregiver e la persona che assiste, è un fatto sociale. Un’altra cosa fondamentale è la libera scelta e se non hai servizi, se non hai alternative, sei obbligato a dare tu assistenza: ma con l’obbligo scattano problemi.

Questa proposta punta molto sulla conciliazione, perché?
Perché già oggi il 36-40% dei lavoratori ha un problema di cura e di assistenza. Quindi c’è la necessità di una conciliazione fra cura e vita personale come pure fra cura e vita lavorativa. Nel momento in cui diamo alla cura un riconoscimento sociale, daremo alla cura anche servizi di supporto. Intendo servizi ma anche welfare aziendale, perché è evidente con i numeri che dicevo prima che anche le aziende dovranno porsi il problema, non relegarlo all’ambito individuale. Al prossimo Caregiver Day di maggio porteremo la testimonianza dell’associazione di imprese a sostegno dei caregiver famigliari nata in Gran Bretagna e noi stessi stiamo iniziando a fare presentazioni dentro le aziende. Questo è fondamentale perché la monetizzazione del lavoro di cura significherebbe riportare le donne a casa, a dare cura agli anziani. Noi difendiamo invece la dimensione sociale della cura, che tra l’altro è da sempre una richiesta del movimento delle donne.

Cosa spera possa accadere, realisticamente, in Parlamento?
Che si cominci ad agire. Cominciare ad agire probabilmente non vuol dire portare a casa tutto ciò che sogniamo ma iniziare a fare il passo oltre una riconoscibilità oggettiva, per essere soggetti di diritto.

Foto Matt Cardy/Getty Images

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