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Jean-Michel Severino: “In Africa sostenere un settore privato responsabile è possibile”

Dal 2011 dirige Investiteurs et partenaires (Ietp), un fondo d’impact investment a sostegno delle piccole e medie imprese in Africa che vincola il profitto alla responsabilità sociale, ambientale e di governance. In questa intervista rilasciata a Vita.it, Jean-Michel Severino, ex direttore dell'Agenzia francese per lo sviluppo, spiega perché è opportuno scommettere sul settore privato africano.

di Joshua Massarenti

Partiamo dall’Italia. Che sguardo porta sulla riforma della cooperazione italiana allo sviluppo?

E’ un’evoluzione molto positiva perché mette in moto un approccio della cooperazione internazionale che mi è molto familiare. Parte della riforma adottata nel 2014 dall’Italia è simile a quelle intraprese in Francia e Germania. Penso alla nascita dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo e al ruolo assegnato alla Cassa Depositi e Prestiti. Per quanto riguarda Cdp, è un modo per professionalizzare ulteriormente il mondo della cooperazione italiana, per associare i finanziamenti a dono con quelli a credito e per dare una dimensione più economica all’Aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) che necessita un approccio diversificato.

Sulla scia della Convenzione firmata un anno fa dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale (Maeci), l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) e Cdp, l’Agence française de développement (AFD) ha siglato con la Caisse des Dépôts un partenariato strategico. Con quali obiettivi?

C’è un interesse comune ad associare le competenze di due grandi istituzioni pubbliche francesi. Entrambe hanno la vocazione di contribuire allo sviluppo socio-economico, la Caisse des Dépôts sul territorio nazionale, l’altra nei Paesi del Sud del mondo. Uno degli obiettivi fissati dal partenariato è il trasferimento di risorse umane, per l’AFD si tratta ad esempio di acquisire presso la Caisse des Dépôts delle competenze in materia di sviluppo urbano o di trasporti. Sul piano finanziario, la Cdp francese e l’Afd hanno creato un fondo comune di 500 milioni di euro per finanziare progetti infrastrutturali sul continente africano.

Parte della riforma adottata nel 2014 dall’Italia è simile a quelle intraprese in Francia e Germania. Penso alla nascita dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo e al ruolo assegnato alla Cassa Depositi e Prestiti.

Nell’era degli Obiettivi di sviluppo sostenibile, che cosa caratterizza il modello di cooperazione francese rispetto ad altri paesi europei?

Il livello di professionalismo eccezionale dei tecnici dell’AFD. Non lo dico perché sono francese, ma perché lavorando da molti anni nel mondo della cooperazione internazionale, lo ritengo un dato di fatto. C’è poi l’approccio universale degli stumenti finanziari implementati dalla cooperazione francese e degli attori coinvolti. Oggi possiamo intervenire attraverso doni, prestiti, crediti, capitali, messi in opera dallo Stato, il settore privato, le organizzazioni della società civile, i comuni e altre autorità locali, le diaspore, le istituzioni finanziarie pubbliche e private, ecc. E questo in tutti i settori, dall’umanitario allo sviluppo sostenibile, che comprende l’educazione, la sanità, le infrastrutture, l’ambiente, l’economia sociale, ecc.

Secondo Le Monde, “l’appoggio dell’aiuto pubblico francese allo sviluppo ai settori sociali, al rafforzamento delle capacità delle autorità statali e allo sviluppo rurale di cui Stati fragili africani hanno più bisogno non attrae gli sportelli commerciali delle banche di sviluppo”. Inoltre, nel 2015 i 16 paesi prioritari della cooperazione francese – tutti africano – hanno ricevuto appena l’8% dell’Aps totale della Francia. Non è un paradosso con le ambizioni da lei descritte?

Questi dati sono un pò fuorvianti perché non prendono in considerazione il volume complessivo degli aiuti della Francia, special modo i prestiti, dove il peso dei paesi poveri è più importante. Detto questo, se ci si limita ai doni, il calo degli aiuti governativi francesi negli ultimi anni ha avuto effetti negativi sui settori sociali, più difficili da finanziare con i prestiti o il settore privato, nonché sui paesi più poveri. Queste conseguenze sono il frutto di strategie governative con cui mi trovo in disaccordo. Per fortuna, l’attuale esecutivo ha deciso di invertire la rotta. Durante COP21, il Presidente Hollande ha annunciato impegni importanti della Francia con la volontà di aumentare nuovamente i finanziamenti a dono, che poi si sono tradotti in atti concreti nella legge di bilancio del 2017.

Il calo degli aiuti governativi francesi negli ultimi anni ha avuto effetti negativi sui settori sociali, più difficili da finanziare con i prestiti o il settore privato, nonché sui paesi più poveri. Per fortuna, l’attuale esecutivo ha deciso di invertire la rotta.

In Italia, la Cassa Depositi e Prestiti non sembra intenzionata ad intervenire nei paesi più fragili. Qual’è la strategia della Caisse des Dépôts riguarda l’opportunità o meno di agire negli Stati dove la povertà è la più estrema?

A mia conoscenza, la Caisse des Dépôts non ha vocazione di sostituirsi all’Agence française de développement. La sua area di intervento rimarrà il territorio nazionale, con trasferimento di fondi e know-how all’Afd. La Caisse des Dépôts non sarà certo un operatore con capacità di intervento nei paesi poveri.

La frontiera tra l’internationalizzazione delle imprese e il coinvolgimento del settore privato nella lotta contro la povertà è un tema che suscita non pochi dibattiti in Italia, in particolar modo nella società civile. E’ così anche in Francia?

C’è ovviamente una grande sensibilità del governo francese nel promuovore le sue aziende all’estero e una forte mobilitazione dello Stato a favore della diplomazia economica, che è legittima. Dall’altra parte, ci sono gli obiettivi dell’aiuto pubblico francese allo sviluppo, che è cosa molto diversa. A mia conoscenza, rimane slegata dagli interessi delle imprese nazionali e, in riferimento al settore privato, focalizzata sul sostegno alle Pmi e le start-up nel Sud del mondo. Detto questo, essendo l’Afd un organismo pubblico francese, è in qualche modo normale che tenda a collaborare più strettamente con imprese francesi quando si tratta di cercare e trovare delle competenze e un know-how in grado di impattare positivamente sullo sviluppo dei paesi poveri. Del resto, un certo numero di imprese francesi dotate di una politica di responsabilità sociale e ambientale molto strutturate vogliono partecipare a programmi ed azioni di interesse generale.


In che modo l'IETP di cui è presidente sostiene le piccole e medie imprese e start-up africane? E perché aver puntato sull’Africa e su questo tipo di realtà imprenditoriali?

Molti dicono che il XXI secolo sarà quello dell’Africa. E non hanno tutti torti. Nel 2050, il pil africano potrebbe avvicinarsi a quello europeo, e la sua popolazione supererà i due miliardi di abitanti. Cosa vogliamo fare? Voltare le spalle e far finta che nella riva sud del Mediterraneo non accade nulla? No. I cambiamenti radicali che stanno avvenendo nel continente africano avranno un impatto sull’Europa. Quindi è meglio essere pronti. Secondo la nostra visione, lo sviluppo di imprese e imprenditori africani è un modo per accelerare la crescita economica e creare più posti di lavoro in Africa, contribuendo alla stabilità politica e sociale dei paesi africani e delle loro democrazie attraverso l’emergenza di una classe media imprenditoriale. Il nostro contributo allo sviluppo dell’Africa ripone sull’ingegneria sociale. Concretamente, portiamo contributi finanziari, tecnici e operativi a impreditori africani investendo nelle loro società per farle non solo crescere, ma svilupparsi in modo responsabile sul piano sociale, ambientale e della governance.

In quanti paesi intervenite?

Oggi sosteniamo circa 70 imprese sparse in una quindicina di paesi africani attraverso tre società capitalizzate da una sessantina di investitori pubblici e privati.

Chi sono questi investitori?

Si va grandi imprese quali Danone, Essilor, Credit Coopératif, fondazioni private, famiglie mecenate e attori pubblici quale la Caisse des Dépôts o la Banca africana di sviluppo.

Secondo la nostra visione, lo sviluppo di imprese e imprenditori africani è un modo per accelerare la crescita economica e creare più posti di lavoro in Africa, contribuendo alla stabilità politica e sociale dei paesi africani e delle loro democrazie attraverso l’emergenza di una classe media imprenditoriale responsabile sul piano sociale e ambientale.

Qual’è il profilo delle imprese in cui investite?

In genere sono imprese di dimensioni medie, con richieste di finanziamento che variano dai 300mila a 1,5 milioni di euro, un management basato in loco, operative nell’economia formale in settori quali la sanità, l’agroalimentare, la costruzione, i servizi, la distribuzione o la microfinanza.

Cosa caratterizza l’impreditore africano con cui vi interfacciate?

I profili sono ovviamente molto variegati, ma ciò che li accomuna è la loro strenua volontà a superare ogni ostacolo per sviluppare le loro imprese, una grande capacità manageriale e una resilienza fuori dal comune. Fare l’imprenditore in Africa non è cosa facile, ci sono ancora parecchi ostacoli giuridici e istituzionali, l’accesso ai finanziamenti rimane un problema, anche se ci sono segnali di miglioramento.

A quanto ammontano gli investimenti?

Circa 75 milioni di euro in 15 anni, con una forte crescita negli ultimi cinque-sei.

Quali i case studies più interessanti?

Ce ne sono tanti… Potrei citare CDS, un’impresa mauritana che favorisce l’accesso all’acqua e all’elettricità nel mondo rurale, principalmente sul fiume Senegal. Abbiamo appena rivenduto la nostra partecipazione a un fondo d’investimento monegasco e alla multinazionale francese Engie. All’origine era un’ong che è stata trasformata in società commerciale molto innovativa nell’esecuzione di lavori elettromeccanici e la fornitura di equipaggiamenti. In pochi anni ha permesso a oltre 30mila famiglie di accedere all’acqua in una regione estremamente povera e priva di infrastrutture.

In tutt’altro settore, abbiamo appena investito in una società maliana specializzata nella produzione e la commercializzazione di calce viva e calce agricola. Si chiama CCM ed è basata a Kayes. Il suo obiettivo è di sostituire l’importazione di calce viva, materiale indispensabile nell’estrazione dell’oro, con la sua produzione locale e lottare attraverso la calce agricola contro l’acidità dei suoli. CCM impiega 90 persone.

In Madagascar stiamo sostenendo un’azienda – Nutrizaza – impegnata nella lotta contro la malnutrizione infantile. Come? Sviluppando una rete di ristoranti per bebè e distribuendo un alimento complementare al latte materno, il “Koba Kaina”, che Nutrizaza cerca di rendere accessibile a tutti, in particolar modo alle famiglie povere. Allo stesso tempo, questa impresa mette a disposizione delle famiglie uno spazio in la nutrizione di un bambino viene seguita con regolarità. Oggi Nutrizaza da lavoro a un centinaio di persone, di cui il 70% sono donne, intervenendo in più di 30 comuni.

Oggi Nutrizaza, un’impresa impegnata nella lotta contro la malnutrizione infantile in Madagascar, da lavoro a un centinaio di persone, di cui il 70% sono donne, intervenendo in più di 30 comuni.

In che modo trovate le aziende che andate a sostenere?

In 15 anni abbiamo messo in piedi sei uffici regionali, ma la vera chiave è la presenza capillare di esperti che viaggiano costantemente sul terreno. In media riceviamo qualche centinaia di proposte d’investimento all’anno.

Che opportunità offre il Piano d’investimenti privati dell’UE in Africa e nei Paesi del Vicinato?

Buone se non si limita a sostenere imprese europee oppure grandi multinazionali africane. Penso che le sfide legate alla sicurezza, le migrazioni e il cambiamento climatico in Africa ci spingono ad investire in modo massiccio sull’altra riva del Mediterraneo. Da soli, i paesi africani non riusciranno a raggiungere la stabilità politica e sociale a cui tutti aspirano. Ci vogliono capitali, ma anche uno snellimento delle procedure di accesso ai finanziamenti per lo sviluppo che tengano conto degli strumenti innovativi apparsi nell’ultimo decennio come l’impact investment. Attraverso il blending, la Commissione europea sta andando nella direzione giusta. Speriamo che questo piano possa accelerare il nuovo processo che è in corso. Siamo in un’era in cui gli aiuti pubblici allo sviluppo non bastano più. Il settore privato ha ruolo determinante da giocare per creare posti di lavoro e contribuire ad uno sviluppo sostenibile sul continente africano.

Credito foto di copertina: IETP

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