Politica

Parto segreto, solo una donna su venti ci ripensa

Sono 90mila le donne che hanno partorito in anonimato. In questi giorni arriva a conclusione l'iter legislativo per modificare l'accesso agli atti e smussare i 100 anni di segreto oggi previsti dalla legge. Queste donne invisibili, che si sono rifatte una vita, non hanno partecipato al dibattito: in compenso i parti segreti sono già scesi del 23% e a Torino su 20 donne interpellate solo una ha accettato di incontrare il figlio. Anfaa mette in luce i nodi problematici e propone una cosa semplice: le donne che cambiano idea palesino la loro volontà, per le altre resti il divieto alla ricerca.

di Sara De Carli

«Ho letto che la Corte Costituzionale ha accolto l’istanza per lo smantellamento del parto segreto. Io sono una madre segreta. Quando ho letto la notizia il mio mondo si è dissolto in un attimo: ho guardato i miei familiari, ignari, e ho visto la fine della vita che con fatica mi sono costruita e guadagnata.
Non vi voglio raccontare il mio passato doloroso, so però che non sarò in grado di riviverlo e non per la conoscenza di mio figlio. Non posso rivivere tutto di nuovo, non ho la forza di raccontare alla mia famiglia attuale, nell’attesa di questa condanna io mi sento morire piano, piano. Che Dio mi perdoni se a volte vorrei farla finita».

Quella che scrive è una donna che molti anni fa ha scelto di partorire in anonimato. Ha scritto a Donata Nova Micucci, presidente dell'Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie. In Italia le donne che hanno fatto questa scelta – «si dice spesso partorire il bambino e abbandonarlo in ospedale, in realtà queste donne hanno scelto di far nascere il bambino e di affidarlo immediatamente alla tutela dello Stato», commenta Frida Tonizzo, consigliere di Anfaa – sono 90mila, dal 1950 ai nostri giorni. Sono donne invisibili, la cui voce non si è alzata nel dibattito in corso sulla modifica della legge 184 per l’accesso alle informazioni sulle origini del figlio non riconosciuto: donne che hanno una vita e una famiglia che magari non sa del loro passato, donne che non possono o non vogliono prendere un microfono in mano e dire la loro, perché non vogliono o non possono svelare la loro identità e il loro passato. Lo ammette un’altra donna, sempre scrivendo ad Anfaa: «Vorrei tanto partecipare attivamente al vostro lavoro, ma sono ancora bloccata dalla paura, non saprei come fare a mettermi in comunicazione con voi senza uscire dall’anonimato. Perdoni la mia codardia, ma la mia famiglia ignara è tutto quello che mi permette di vivere».

Eppure il dibattito in corso le riguarda e i cambiamenti legislativi che si profilano all’orizzonte potrebbero cambiare le loro vite per sempre. Anche Vita.it ha affrontato il tema, raccontando l’iter parlamentare, la recente sentenza della Corte di Cassazione, le speranze dei figli che da anni sono alla ricerca delle loro origini. Oggi, data ultima per la presentazione di emendamenti al disegno di legge 1978 in Commissione Giustizia del Senato (qui il testo), attraverso Anfaa (qui il suo dossier) vogliamo dare voce anche alle donne che hanno scelto di partorire in anonimato.

Il quadro è questo: oggi la legge prevede che una donna possa partorire in anonimato, con tutte le garanzie di sicurezza sanitaria per lei e per il bambino. La legge assicura a queste donne che la loro identità rimarrà segreta per 100 anni. I bambini, appena nati, vengono segnalati al Tribunale dei Minorenni e dati in adozione. Dal 1950 ad oggi sono 90mila i neonati non riconosciuti. Ora si vorrebbe modificare la legge nella direzione di smussare quel segreto lungo 100 anni: a 18 anni un ragazzo che volesse avere informazioni sulla sua madre biologica, può avviare un iter tramite cui un giudice può rintracciare la donna e verificare con lei se intende sempre mantenere l’anonimato o se – sapendo che il figlio la sta cercando – svelare la sua identità. Ovviamente la legge prevede che questo percorso debba tutelare la privacy della donna, ma diverse obiezioni sono già state mosse in questo senso: «le loro istanze sarebbero inevitabilmente prese in esame da un numero elevato di persone e la lettera di convocazione per verificare con la donna la sua disponibilità ad incontrare i propri nati potrebbe facilmente essere vista dai famigliari. Nei fatti verrebbe violato il diritto alla segretezza», spiega Tonizzo.

La richiesta di Anfaa quindi è un’altra: «che siano le donne disponibili a incontrare i propri nati a palesare la loro disponibilità in qualsiasi momento, revocando la loro decisione. La nuova volontà potrebbe essere manifestata presso un’autorità da individuare, come il Tribunale dei Minorenni o il Garante per l’Infanzia. Qualora il figlio chiedesse accesso agli atti, l’iter partirebbe solo nel caso in cui la donna abbia già manifestato preventivamente la sua disponibilità al riguardo, tutte le altre non potrebbero essere in alcun modo interpellate». È il contrario di quel che prevede oggi il disegno di legge: iniziativa del figlio e la donna che non vuole essere interpellata che deve confermare la propria volontà all’anonimato entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge o comunque a 18 anni dal parto, svelando la propria identità al Tribunale dei Minorenni e al personale che vi lavora. «Ma questa è sempre stata una scelta per sempre», afferma Tonizzo, raccontando di come a Torino, un tribunale che già ha percorso la strada della convocazione delle madri dinanzi a una richiesta del figlio, su 20 donne interpellate soltanto una ha cambiato idea sul segreto e ha accettato di incontrare il suo nato. «La recente sentenza della Cassazione punta il dito non sulla segretezza del parto ma sul fatto che oggi non sia prevista alcuna possibilità di interpello della donna e una verifica del permanere della sua volontà: crediamo che dare alla donna la possibilità di segnalare all’autorità la propria disponibilità a incontrare il figlio che ne facesse richiesta sia una buona strada, consente alla donna che lo desiderasse di ripensare la sua scelta e allo stesso tempo garantisce la segretezza per tutte le altre».

Bocciato anche l’ipotesi che se la donna è deceduta, i dati vengano comunicati immediatamente e incondizionatamente al figlio che ne faccia richiesta, senza mettere nessun paletto di anni trascorsi: «questo però viola la memoria della donna, che non può nemmeno più spiegare o parlare con i propri cari. È una violazione gravissima del diritto alla riservatezza suo e dei suoi congiunti», spiega Tonizzo. Infine i 18 anni previsti per presentare la richiesta di accesso ai dati: «troppo pochi, la personalità è ancora in formazione, meglio mantenere i 25 attuali».

Insomma, «Anfaa, che è stata audita nei giorni scorsi in Commissione Giustizia e ha portato le sue osservazioni, è convinta che il Senato debba intervenire sul testo approvato dalla Camera nel 2015, che è molto negativo», afferma Tonizzo. Una grandissima preoccupazione va anche nella direzione del fatto che indebolire la garanzia di anonimato potrebbe portare le donne a fare altre scelte: l’aborto oppure partorire in luoghi e modi infinitamente meno sicuri di un ospedale, con un aumento di infanticidi o di bimbi abbandonati in luoghi che mettono in pericolo la loro vita. «Una rilevazione effettuata da Anfaa fra il 2000 e il 2014 attesta un calo del 23% circa dei minori non riconosciuti alla nascita, come se il solo sapere che il Parlamento stava discutendo questa possibilità avesse portato le donne a fare altre scelte», conclude Micucci.

Che cita ancora un’altra lettera: «Come avrà capito, io sono una di quelle donne disgraziate che ha dato il proprio figlio in adozione in virtù dell’anonimato promesso 40 anni fa, poiché io non volevo abortire.
Sono andata avanti con la mia vita e la certezza della buona adozione di quella creatura (una buona suora mossa a pietà mi disse che era stato adottato da due brave e buone persone…). Ora ho una famiglia mia, meravigliosa, sono un riferimento affettivo forte per i miei e anche per altri. L’amore che non ha potuto riservare a uno l’ho riversato su altri, ma ora cosa succederà? 
I miei non sanno nulla, non ho mai avuto il coraggio di raccontare il mio passato, ma ciò che più mi spaventa è la consapevolezza di non essere in grado di sopportare il fatto che loro possano venirne a conoscenza. Ho cominciato a vivere nel terrore che un giorno arrivi a casa una raccomandata che mi obbliga a presentarmi in tribunale come una malvivente».

Foto Unsplash

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