Mondo

Lia Quartapelle: “La cooperazione italiana allo sviluppo ha un grande ruolo da giocare”

“Il 2017 segnerà un punto di svolta per la cooperazione italiana allo sviluppo che dopo un anno di transizione entrerà a pieno regime”. Così’ Lia Quartapelle, capogruppo per il Partito Democratico nella Commissione Esteri della Camera dei Deputati. In questa intervista a Vita.it, Quartapelle affronta tutte le sfide che attendono la cooperazione italiana nel 2017.

di Joshua Massarenti

Lia Quartapelle è nota per il suo grande contributo all’elaborazione e all’adozione della Legge 125 nel 2014 che ha modificato radicalmente il destino della cooperazione italiana allo sviluppo. Non solo. E’ anche una deputata tra le più influenti nel riassetto strategico dei rapporti tra l’Italia e l’Africa. A lei dobbiamo l’Africa Act, un pacchetto di misure presentato dal Partito Democratico alla Camera nel luglio 2016 per rilanciare le relazioni tra il nostro paese e il continente africano e rafforzare la presenza italiana nel continente africano in una logica di co-sviluppo, dal quale è poi nato il Fondo Africa recentemente approvato nella Legge di Bilancio 2017.

Partiamo dal Fondo Africa che prevede interventi straordinari nei paesi africani prioritari situati sulle rotte migratorie. Qual’è la matrice di questa iniziativa?

Nel giro di pochi anni abbiamo intrapreso un percorso che ci ha consentito di riportare l’attenzione della politica italiana sull’Africa. E questo è di per sè un risultato molto positivo. Questo percorso si è in parte concretizzato con visite ufficiali ripetute sul continente africano di personalità di alto livello del nostro paese, a partire dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il nuovo approccio è stato poi reso operativo grazie agli strumenti che ci siamo dotati , l’ultimo dei quali è il Fondo Africa. Insomma, mai nella storia politica italiana, le parole spese a favore dell’Africa sono state seguite da così tanti fatti come negli ultimi tre o quattro anni. Del resto, il decreto firmato dal ministro Alfano va letto nel quadro di questo nuovo scenario in cui l’Italia sta scrivendo una nuova pagina delle sue relazioni con i paesi africani.

Dall’Africa Act che il Partito Democratico aveva presentato nel luglio scorso alla Camera dei Deputati al Fondo Africa, il percorso le sembra coerente?

Leggo il Fondo Africa come lo avevamo concepito, ovvero un strumento che riconosce la pluralità degli interventi da implementare assieme ai paesi africani, lasciando ampio spazio di azione a chi decide la linea di indirizzo strategico nei confronti dell’Africa. Al di là delle bozze che sono circolate prima della firma del decreto, il testo finale include molti paesi in cui intervenire e parecchie modalità di intervento. Lo ha ricordato lo stesso ministro Alfano nel corso di un’audizione alla Commissione Esteri della Camera dei Deputati, il Fondo andrà a favore della cooperazione e del rafforzamento delle capacità di alcuni Stati africani in ambito migratorio. Ma, ripeto, la forbice degli interventi rimane molto ampia.

Leggo il Fondo Africa come lo avevamo concepito, ovvero un strumento che riconosce la pluralità degli interventi da implementare assieme ai paesi africani, lasciando ampio spazio di azione a chi decide la linea di indirizzo strategico nei confronti dell’Africa.

C’è stato però una forte preoccupazione da parte delle organizzazioni della società civile di vedere la sicurezza prendere il sopravvento sullo sviluppo…

La spesa del Fondo sarà molto collegata alle linee di indirizzo strategico che sono nelle mani del Vice minisro Mario Giro e dai suggerimenti della società civile. I soldi verrano spesi, bene o male, a seconda della nostra capacità di immaginare una politica complessiva per l’Africa. Il ministro Alfano ha ribadito in audizione che l’Italia promuove in alcune aree del mondo una strategia politica in grado di coniugare sicurezza e solidarietà e che viene rispecchiata nel Fondo Africa presentato in conferenza stampa.

Il Fondo consente inoltre di fare cooperazione nella gestione dei flussi migratori, cosa che non è possibile fare con gli strumenti finanziari classici della cooperazione italiana. Insomma, sulla scia del pensiero strategico che ha animato l’Africa Act, qui l’Italia privilegia un approccio integrato nei suoi rapporti con i partner africani.

Chi alla Farnesina sarà incaricato di gestire questo Fondo?

Nel decreto è chiaramente scritto che la Direzione Generale per gli italiani all’estero e le migrazioni (DGIT) avrà il compito di monitorare le iniziative che potranno essere implementate da una miriade di attori, tra cui l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) e le organizzazioni della società civile. Ora si tratta di costruire una cornice politica dentro la quale darci delle priorità strategiche, identificare i paesi con cui intendiamo cooperare maggiormente e con quale tipo di cooperazione l’Italia può portare valore aggiunto.

La spesa del Fondo sarà molto collegata alle linee di indirizzo strategico che sono nelle mani del Vice minisro Mario Giro e dai suggerimenti della società civile. I soldi verrano spesi, bene o male, a seconda della nostra capacità di immaginare una politica complessiva per l’Africa.

Tra i soggetti attuatori del Fondo, il decreto menziona oltre all’Aics o l’OIM, “altre amministrazioni dello Stato”. Questo significa che parte dei finanziamenti potrebbero finire al ministero degli Interni?

Significa quello che significa. Nel Decreto missioni noi vediamo una forte collaborazione tra Esteri e Difesa in alcuni paesi strategici per la pace e la sicurezza in Africa. Si potrebbe intendere anche questo.

In che modo il Fondo Africa si inserisce nella politica estera dell’UE sulle migrazioni?

E’ un test importante per l’Italia, che stanzia già tante risorse a favore del continente africano, perché i 200 milioni di euro del Fondo Africa si aggiungono ai 400 milioni che spendiamo in ambito di cooperazione allo sviluppo. Con questi fondi, possiamo diventare un paradigma per l’Unione Europea, ovvero un esempio che parte da un’idea strategica di futuro comune con l’Africa per strutturare delle risorse di partnership con i paesi africani.

L’accordo Italia-Libia è stato fortemente criticato dalla società civile. Che sguardo ha su questo accordo?

Siamo tutti d’accordo a dire che oggi la Libia è un problema. Come lo avete rivelato bene anche voi con il bel servizio del giornalista Patrick Ndungidi da Lampedusa, appare evidente che le peggiori atrocità del traffico dei migranti avvengono in teritorio libico. E’ quindi nell’interesse di tutti che i percorsi migratori siano più legali possibili e i viaggi meno traumatici. Questo può avvenire soltanto in un quadro di legalità complessiva internazionale e di partnership.

Di conseguenza non vedo in modo negativo l’accordo con la Libia, ma piuttosto come un embrione di quella legalità internazionale a cui mi riferivo. Ai campi di detenzione dove i migranti vengono torturati, preferisco un accordo e un dialogo con govermo libico che ci consentono di costruire dei campi assieme alle organizzazioni internazionali con l’idea di gestire i flussi, e non di farli gestire dai trafficanti.

Le critiche sono stimolanti ed è importante vedere la società civile che richiama la nostra attenzione sui diritti umani. Essere a favore di questo accordo non significa non vedere e non sapere che c’è una situazione di criticità. Anzi, significa vederlo e voler lavorare in un quadro di legalità internazionale condivisa per affrontare i nodi critici.

Siamo tutti d’accordo a dire che oggi la Libia è un problema. Ma è nell’interesse di tutti che i percorsi migratori siano più legali possibili e i viaggi meno traumatici. Questo può avvenire soltanto in un quadro di legalità complessiva internazionale e di partnership.

Ma com’è possibile intervenire in un paese così sfasciato?

La situazione in Libia è obiettivamente molto complicata, anche per via della scelta della Russia di appoggiare la Cirenaica, i possibili cambiamenti che la nuova amministrazione americana può introdurre, fanno sì che qualsiasi passo genera molte perplessità. Penso che prima di un Vertice importante come quello di La Valletta, fosse giusto tenere alta l’attenzione sulla vicenda libica e dimostrare che con la Libia è possibile trovare un accordo anche embrionale. Certo, il Memorandum firmato con l’Italia non è per nulla conclusivo. Il nostro ambasciatore ha ricordato durante una visita in Cirenaica quanto fosse importante dialogare con questa parte del paese. Già prima dell’elezione di Trump, l’Italia si era espressa a favore di un dialogo con Haftar per garantire un assetto complessivo forte al futuro della Libia.

A più riprese, i leader africani del Sahel si sono lamentati sul fatto di non essere sufficientemente ascoltati sul dossier libico. Come l’Italia può rispondere a queste preoccupazioni?

E’ uno spunto interessante per le nostre attività all’interno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Ci sono state occasioni in cui la Comunità internazionale non ha ascoltato con sufficiente attenzione i nostri partner saheliani, a partire dal mancato esilio di Gheddafi nel 2011. Se i paesi del G5 Sahel arrivano con uno stimolo concreto, l’Italia sarà molto disponibile a dare il suo contributo. Del resto, l’apertura di un’ambasciata in Niger, la visita di Gentiloni a Niamey e la nomina pochi mesi fa dell’ambasciatore Arturo Luzzi a inviato speciale in Sahel del Ministero degli Esteri e della cooperazione internazionale, sono tutti segnali che dimostrano quanto l’Italia sia attiva su questo fronte. Ci rendiamo però conto della necessità di puntare di più sul Sahel rispetto al passato, per affrontare una vicenda così complessa come quella libica.

Se i paesi del G5 Sahel arrivano con uno stimolo concreto, l’Italia sarà molto disponibile a dare il suo contributo.

Oggi sono trascorsi due anni e mezzi dall’adozione della Legge 125 su cui lei si è fortemente impegnata. Qual’è il suo bilancio?

Il passo più positivo è stata la nomina di Laura Frigenti come direttore dell’Agenzia, consentendo all’Aics di iniziare a lavorare nei tempi previsti dalla Legge 125. E’ stata una nomina trasparente, che ha dimostrato la nostra volontà di far funzionare bene l’Agenzia. Con le risorse supplementari che abbiamo stanziato nella Legge di Bilancio, la sistemazione di alcuni meccanismi che definiscono il ruolo di Cassa Depositi e Prestiti sul fronte delle garanzie, i bandi avviati dall’Aics, nonché il concorso per assumere nuovo personale nell’Agenzia, posso dire che il 2017 sarà l’anno in cui la macchina del sistema italiano della cooperazione allo sviluppo andrà a pieno regime. Del resto ce lo impone l’agenda internazionale: tra la presidenza di turno del G7, il Consiglio di sicurezza dell’Onu dove il nostro paese occupa un seggio non permamente, le emergenze Libia, Siria, Corno d’Africa, migrazioni, l’Italia deve poter rispondere presente con una cooperazione efficiente.

Il passo più positivo è stata la nomina di Laura Frigenti come direttore dell’Agenzia, consentendo all’Aics di iniziare a lavorare nei tempi previsti dalla Legge 125.

Come va chiarito il rapporto tra la Direzione generale della cooperazione allo sviluppo (Dgcs) e l’Aics?

Si sta chiarendo nella pratica, e di questo va dato merito sia all’Agenzia che alla Dgcs. E’ evidente che i meccanismi generali che avevamo immaginato nella Legge 125 richiedessero sforzi per renderli operativi. A un anno dalla nomina della Frigenti alla direzione dell’Agenzia, possiamo dire che oggi le cose funzionano. Lo dimostrano i passaggi più delicati che andavano superati, e lo sono stati in modo molto positivo.

Il 2016 è stato segnato dalla non adozione del Documento triennale di programmazione della cooperazione italiana da parte del Comitato interministreriale della cooperazione allo sviluppo. Perché secondo lei?

Le urgenze erano altre. Penso alla necessità di sintonizzare i rapporti tra Dgcs e Aics, al funzionamento della stessa Agenzia, in cui è approdato buona parte del personale dalla Dgcs. Non potendo poi disporre delle risorse umane necessarie previste dalla Legge per essere pienamente operativa, l’Aics è andata avanti nel 2016 come meglio poteva in circostanze obiettivamente difficili. Questo problema verrà risolto, consentendo quindi all’Agenzia di poter contribuire in modo efficace ai progetti e ai programmi che dovranno essere implementati.

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.