Welfare
Nicoletti: «la verità è che per i diritti non abbiamo tempo»
Dieci anni fa l’Assemblea dell’Onu approvava la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità: un cambio di paradigma, che poneva nel diritto il punto di partenza di ogni ragionamento sulla disabilità e anche di ogni servizio. Ma nei fatti, cosa è cambiato? «Far valere i propri diritti richiede tempo, cultura, a volte denaro, ma soprattutto tanta disponibilità di testa. E la testa di un genitore di un ragazzo come Tommy è occupata dall’emergenza del quotidiano», confessa il giornalista Gianluca Nicoletti
Dieci anni fa, il 13 dicembre 2006, l’Assemblea dell’Onu approvata la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità: un cambio di paradigma, che poneva nel diritto il punto di partenza di ogni ragionamento sulla disabilità e a cascata di ogni servizio per le persone con disabilità stesse. Dieci anni dopo, la Convenzione è stata ratificata da 169 parti, inclusa l’Italia: tante cose stanno cambiando e tanti soggetti stanno cambiando prospettiva, passando da una logica imperniata sull’obiettivo di migliorare il comportamento e il funzionamento delle persone con disabilità a quello della qualità di vita. Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon, nel suo messaggio per la Giornata internazionale delle persone con disabilità che si celebra il 3 dicembre esorta «i governi nazionali e locali, le imprese e tutti gli attori della società a intensificare gli sforzi per porre fine alla discriminazione e rimuovere gli ostacoli ambientali e attitudinali che impediscono alle persone con disabilità di godere dei propri diritti civili, politici, economici, sociali e dei diritti culturali. Cerchiamo di lavorare insieme per la piena ed uguale partecipazione delle persone con disabilità in un mondo inclusivo e sostenibile, che abbraccia l'umanità in tutta la sua diversità». Ma nella realtà, questo cambio di paradigma, quanto ha preso piede? Lo abbiamo chiesto a Gianluca Nicoletti, giornalista e papà di un ragazzo autistico, che da un anno sta girando l’Italia per realizzare un film che sia un racconto autentico sui ragazzi autistici. Nicoletti domani, per la Giornata Internazionale delle persone con disabilità, sarà a Rimini al convegno “Disabilità intellettive e del neurosviluppo: diritti umani e qualità della vita”, organizzato da Anffas.
Nicoletti, in questo viaggio per l’Italia che cosa ha visto rispetto al parlare di disabilità tenendo al centro la questione dei diritti?
Per il tipo di disabilità che conosco io, quella psichica e relazionale, le persone hanno purtroppo una consapevolezza molto limitata dei propri diritti, tutto è delegato alla famiglia e chi gestisce la persona. Il fatto è che i genitori hanno un impegno quotidiano pressante che lascia pochissimo tempo per pensare e guardarsi attorno. Il quotidiano si sovrappone a tutto, si mangia tutto, anche quello che potrebbe essere diverso: tu entri in uno stato di “sottomissione” al problema quotidiano e non pensi nemmeno più a chiedere nulla a nessuno. Far valere i propri diritti richiede tempo, cultura, a volte anche denaro, ma soprattutto tanta disponibilità di testa e la testa di un genitore di un ragazzo come Tommy è occupata dall’emergenza del quotidiano. Su questo gioca chi millanta, promette e rimanda. Il tempo è il punto cruciale. Tu non hai tempo di respirare, a volte vai al municipio a rivendicare un diritto e ti dicono “ripassa” ma quel “ripassa” diventa talmente pesante che piuttosto ti arrangi e ti inventi qualcosa.
C’è la tentazione di rinunciare a far valere i propri diritti e quelli del proprio figlio?
Non è una rinuncia volontaria, è il quotidiano che ti mangia il tempo e ti logora. Ci vorrebbero rappresentanti seri, che si facciano rappresentanti delle istante delle famiglie in senso concerto. Devo dire che molte associazioni questo la fanno, ma molte altre in questo compito hanno clamorosamente fallito. Ci vorrebbero rappresentanze veramente capillari, per aree territoriali, perché il primo ostacolo è nella tua Asl, con il tuo dirigente scolastico… tutti i giorni noi famiglie sbattiamo contro persone che non hanno alcuna cultura rispetto al nostro problema e ai nostri diritti, è massacrante. In questo viaggio ho raccolto spesso frasi rassegnate: “eh, ma tanto a chi dico, a chi mi rivolgo, poi se va bene mi danno l’assistenza domiciliare ma tanto non sa niente…”.
Quindi i discorsi di chi oggi punta molto sulla questione dei diritti e anche dell’autorappresentanza delle persone con disabilità sono “troppo” avanti?
Sono discorsi avanzatissimi, ma è giusto farli. Le idee devono correre avanti rispetto alle prassi, questo è l’atteggiamento sano, le battaglie culturali si fanno così. In fondo se oggi i nostri figli vanno a scuola insieme agli altri è perché nei decenni scorsi qualcuno ha cominciato a dire cose che all’epoca sembravano folli. Però c’è tanta strada da fare.
C’è anche retorica?
Un po’ forse sì, nel senso che è bene fare certe affermazioni, ma poi bisogna cominciare a fare azioni legali, perché non è che i diritti si ottengono chiedendoli, bisogna fare ricorsi, che significa spendere tempo e denaro. È questa parte che per le famiglie diventa molto difficoltosa, perché è in carico alle stesse persone che devono pensare ai bisogni primari dei loro famigliari con disabilità. Insomma, i diritti sono belli, ma io, ora, cosa faccio? Poi ci sono anche le persone con disabilità che hanno la capacità scendere in piazza, questo è un altro discorso.
A che punto è il film Tommy e gli altri?
Abbiamo finito le riprese e il montaggio, sto facendo edizione e mixaggio. Sarà un film di 120 minuti. Prima di Natale sarà pronto, ma credo che sarà presentato al pubblico a ridosso del 2 aprile, per la Giornata Mondiale dell’Autismo. Ho anche presentato un progetto al Miur, spero che verrà approvato, in cui mi impegno a portare il film nelle scuole, aprendo un dibattito: girerò l’Italia per far vedere ai ragazzi cosa c’è dietro al loro compagno diverso. E dal momento che siamo in un Paese in cui i genitori organizzano uno sciopero se in classe con il figlio c’è un bambino autistico, sarebbe bello che lo vedessero anche i genitori di figli “normali”. Finora l’hanno visto ristretti gruppi di persone, con figli disabili e no, i commenti e le reazioni mi hanno molto inorgoglito, sono soddisfatto.
Nell'ultimo anno o poco ci sono state diverse novità sul fronte legislativo rispetto alla disabilità: la legge sull’autismo (la 134/2015, dell’agosto 2015), la legge sul dopo di noi (la 112/2006, di giugno), il nuovo programma d’azione biennale per la disabilità…
Tutte cose di cui non ho visto nessun effetto concreto. Non mi fraintenda, è bene che se ne parli, è meglio avere queste leggi che non averle, ma la vita mia e delle persone che conosco non è cambiata di una virgola. Forse il Dopo di noi potrebbe avere ricadute concrete, ma per ora siamo all’enunciazione dei principi: si vedrà.
Franco Bomprezzi, alla vigilia del 3 dicembre 2011, su vita.it scrisse «non me ne vogliano le grandi associazioni, ma io vorrei che domani fosse una giornata dedicata al silenzio. E all'ascolto. Che nessuno parli. Che tutti ascoltino, o guardino, o tocchino con mano. Non c'è quasi niente da celebrare. Invece del classico minuto di silenzio, proporrei una giornata di silenzio. Proprio il 3 dicembre. Nessuno parli di disabilità. E poi, magari, 364 giorni di fila nei quali invece se ne parla eccome, e si agisce, con i fatti, con le delibere, con le leggi, con gli stanziamenti, con le buone prassi, con i diritti. Perché il 3 dicembre rischia di diventare un'altra Giornata della Memoria. Com'era bello il tempo delle leggi positive e di riforma. Com'era bello il tempo della legge sull'inclusione scolastica, della legge sull'occupazione, della legge sulla non discriminazione. Eppure verrà il giorno, ne sono sicuro, in cui ripartiremo, di slancio, e riempiremo di fatti le parole, e di speranza i nostri cuori». Lei è d’accordo?
Sì ovviamente Franco aveva ragione. Però distinguerei, c’è chi approfitta di questo giorno per fare il punto sul lavoro di un anno intero e chi fa passerella. Non disprezzerei queste giornate, l’incontro a cui sto andando è serio ad esempio, ma la passerella dei benpensanti quella sì, mi urta. Guarda, io ci scommetto, per tutto il pomeriggio mi chiamerà qualche collega per dire “Nicoletti, dai, dimmi qualcosa, domani che fai?”. Risponderò, certo, ma è come quando c’è il raduno alpini e ti ricordi di quel collega che ha fatto la leva per fargli una domanda…
In foto Gianluca Nicoletti con il figlio Tommy, by Beatrice Quadri
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