Welfare

Social street, un fenomeno che contagia il mondo

L’intervista a Luigi Nardacchione primo coordinatore di via Fondazza, primo esempio di strada sociale al mondo, e cofondatore di Social Street International

di Sara De Carli

Via Fondazza è stata la prima Social Street del mondo, primo esempio di un fenomeno che oggi ha contagiato, nel mondo, 100mila persone.

Tanti sono gli iscritti a una social street o almeno alle 450 di cui qui a Bologna hanno notizia, giacché «noi non abbiamo fatto nulla perché ne nascessero altre, non c’è nessuna centralizzazione, nessun “controllo” né sul logo né sul nome». A parlare così è Luigi Nardacchione, che di via Fondazza Social Street è stato il primo coordinatore e cofondatore di Social Street International. Si tratta di gruppi chiusi su Facebook per chi abita nella stessa strada, punto di partenza virtuale per creare legami virtuosi, condividere bisogni, darsi una mano. Oggi la pagina di via Fondazza ha 1.300 iscritti sui 1.800 residenti, con una media di tre richieste al giorno e tre risposte per ogni “messaggio in bottiglia”. Con lui abbiamo ragionato di sharing economy.


Cos’è la sharing economy vista da via Fondazza?
Già, dobbiamo intenderci, perché spesso a guardar bene salta fuori che si parla di economy e niente di sharing: dubbi ce ne sono tanti. Noi dalla sharing economy prendiamo “sharing” e togliamo “economy”, nel senso che abbiamo escluso qualsias rapporto con l’economia, la finanza e la politica. Certo non con l’economia in senso etimologico, dell’ambiente in cui stai. La nostra esperienza si caratterizza proprio perché siamo molto chiari su questo punto: non siamo contro la sharing economy, ma da noi avviene su base gratuita, tant’è che anche gli scambi di professionali avvengono nel 90% dei casi gratuitamente. Per noi la sharing economy è questo, la condivisione dei bisogni e la capacità di tornare a condividere un pezzo di territorio, stimolando i rapporti di buon vicinato, riconoscendo le persone e prevedendo la possibilità di dare un aiuto ai vicini, questa è la nostra economia. Non è quella delle banche del tempo, non è Uber, non è la gig economy, uno dei pilastri è la gratuità, insieme alla conoscenza delle persone e delle loro necessità e anche alla capacità di chiedere alle persone un aiuto, perché n ormai non siamo nemmeno più capaci di chiedere aiuto. In tutto questo può esserci una ricaduta economica, ma non mettiamo al centro l’economia.

Che richieste passano dalla pagina?
Le più disparate: un oggetto, un’informazione, un aiuto, una mano per un trasloco, chi può tenermi i bambini, chi mi presta un trapano o un altro di quelli oggetti che usi una volta all’anno, i cavetti per l’auto in panne… È come lanciare un messaggio in bottiglia, però con la certezza che quel messaggio arriverà a qualcuno e che qualcuno ti risponderà: ogni richiesta infatti riceve almeno tre risposte. Questo cambia tutto, perché una volta che una persona ha trovato il coraggio di chiedere, il fatto che ci siano tre risposte, genera coraggio anche negli altri: questo è il cambiamento principale, la socializzazione e la fiducia negli altri. Nel momento sei immerso in una realtà di questo tipo, le cose sono completamente diverse anche per chi oggi non ha bisogno di niente ma sa che nel momento in cui potrebbe avere bisogno innanzitutto avrà la capacità di chiedere aiuto e ci sarà qualcuno che lo aiuterà. È un cambiamento enorme rispetto alla convinzione che “tutti se e fregano di tutto e di tutti”.

Avere a disposizione un trapano senza doverlo comprare è già un risparmio, no?
Certo, non sto dicendo che non ci sia un effetto economico. Da coordinatore e partecipante di Via Fondazza e da osservatore delle social street in tutto il mondo, vedo chiaramente che tante cose si possono fare risparmiando soldi: una ricerca afferma che nei condomini solidali ogni famiglia ha un risparmio di di 1.800 euro anno, è tantissimo se pensa che tutte la stragrande maggioranza delle startup della sharing economy hanno un ritorno di mille euro anno, non possiamo traslare immediatamente dal condominio solidale alla social street, però… Sulla pagina facebook di Via Fondazza ogni giorno avvengono 2/3 scambi, c’è chi cerca e anche chi offre: un mobile, dei libri, dei giochi, è un risparmio per te che lo dovresti buttare e per le persone che ne hanno bisogno. Prima di questo però, la cosa fondamentale è la condivisione di una visione, di vedere la città sotto l’aspetto delle relazioni: lo scopo primario e secondario non si devono confondere. È fuori dagli schemi, lo capisco.

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Via Fondazza a Bologna


È per questo che diceva con orgoglio che sulla vostra pagina il 90% degli scambi, anche quando richiedono una professionalità, avviene gratuitamente?
Certo e in questo senso siamo diversi anche dalle banche del tempo. Anche lì non gira denaro, però presupposto è che io non sono legato a queste persone, ricevo tot e do tot, “sono a posto con te”. Per noi invece al centro c’è il legame fra le persone, per questo c’è il dono. “Dono” è una delle sei parole chiave della nostra esperienza.

Quali sono le altre cinque parole?
Da virtuale a reale e a virtuoso, insieme a socialità, dono e inclusione. Nel senso che se tu chiedi aiuto non ti chiedo di religione o nazione sei, se sei ricco o povero, non c’è distinzione alcuna. È difficile inserire tutti questi pensieri nella sharing economy, vanno un po’ a rompere uno schema che però, a ben guardare, per alcuni versi si sta già rompendo da solo. Non vedo in giro molte vere esperienze di condivisione e finché non condividi non c’è sharing, ci sono solo fruitori e fornitori. Serve invece una sharing sociality, dove si tenga conto dei bisogni di tutti.

Ci fa alcuni esempi di questi anni?
Una volta ha preso fuoco un appartamento e immediatamente tre o quattro persone sono andate sul posto per offrire ospitalità agli abitanti. Per farti ridere, c’è la ragazza che chiede qualcuno mi presta un trapano per montare le mensole, il primo risponde sì va bene, il secondo dice te le monto io. Piccoli esempi, che però risolvono i problemi tutti i giorni: ho la doccia rotta, vieni a fare la doccia a casa mia. C’è già chi condivide l’automobile, con il proprietario che ha messo a disposizione la sua auto un giorno alla settimana. È un esserci e un non essere più estranei l’uno agli altri. Qui è molto attive il bike sharing di quartiere, abbiamo recuperto tante bici dimenticate nei garage e le abbiamo messe a disposizione di chiunque, senza documenti: chi ha bisogno va dal frutta e verdura, prendo le chiavi del deposito, prende la bici e la riporta. Se non la riporta? Vuol dire che ne aveva più bisogno. Ormai molte cose non passano nemmeno più dalla pagina, le persone le fanno e basta, ci si incontra per strada e ci si parla, è una catena di relazioni. Una persona malata ha avuto compagnia in ospedale dalla mattina alla sera per più di un mese, grazie agli amici di Via Fondazza: questa è condivisione, questa è la vera sharing.

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