Cultura

Sazi da morire: malattie dell’abbondanza e necessità della fatica

Sembra che la ricchezza non solo eserciti il suo potere di attrattiva, ma riesca a mobilitare anche i giovanissimi storditi da un ideale di vita e di successo che la società dello spettacolo riesce a diffondere capillarmente in tutti i livelli della società globale. Possiamo davvero confidare in un cambiamento? Una riflessione a partire dall'ultimo libro di Claudio Risé

di Pietro Piro

A pochi giorni dall’elezione a presidente degli Stati Uniti d’America di Donald Trump, multimiliardario immobiliarista, che ha fatto parte della sua fortuna investendo in casinò, leggere questa affermazione contenuta nell’ultimo libro di Claudio Risé, Sazi da Morire. Malattie dell’abbondanza e necessità della fatica (San paolo Edizioni, Milano 2016), potrebbe non essere facilmente digeribile: «la ricchezza sporcata dall’avidità e dall’esibizione, ha perso luce e attrattiva. Non è più interessante per l’anima di un giovane, che spesso ha ancora una sua pulizia, malgrado l’esempio opaco del mondo adulto» (p. 160).

Sembra, invece, che la ricchezza non solo eserciti il suo potere di attrattiva ma riesca a mobilitare anche i giovanissimi, storditi da un ideale di vita e di successo che la società dello spettacolo riesce a diffondere capillarmente in tutti i livelli della società globale. La malattia globale dell’accumulo compulsivo fine a se stesso è virale e colpisce anche il giovane più idealista. Ha detto bene l’ex presidente dell’Uruguay Pepe Mujica – in Italia per una serie di conferenze – che ci ricorda che: «viviamo in un mondo nel quale si crede che colui che trionfa debba possedere tanto denaro, avere privilegi, una casa grande, maggiordomi, tanti servitori, vacanze extralusso. Mentre io penso che questo modello vincente sia solo un modo idiota di complicarsi la vita. Penso che chi passa la sua vita a accumulare ricchezza sia malato come un tossicodipende, andrebbe curato».

Risé con questo suo nuovo libro sembra andare nella stessa direzione di Mujica perché dopo aver analizzato i segni dei tempi, intravede nei giovani «un tentativo di svincolarsi da secoli di materialismo ostinato, una ricerca di mani libere e piede leggero, di libertà di movimento e respiro intellettuale e spirituale, ormai quasi del tutto ingessato nelle categorie di un razionalismo vecchio, avido, provinciale e stantio» (p. 161). Questo desiderio di libertà dal condizionamento dal materialismo Risé lo propone nelle ultime pagine di un libro che ha un taglio tutt’altro che ottimistico.

Il libro analizza, infatti, la più diffusa malattia dell’Occidente: «un continuo oscillare dal delirio di onnipotenza e dalla volontà di godimento illimitato a una sostanziale impotenza e depressione […] gusto per l’eccesso e perdita del senso della misura; la rimozione della funzione della fatica (anche dal punto di vista fisico e intellettuale); l’abitudine e il piacere della dipendenza, in particolare verso gli oggetti e la tecnologia ma anche verso cibo e sostanze; l’arroganza verso l’altro, il diverso che osa guardare al mondo in un altro modo. Soprattutto, il riferire costantemente tutto a se stessi, con una scarsissima consapevolezza del mondo attorno e degli altri» (p.7). Risè insiste molto sul devastante impatto sociale delle NDC (Non-Comunicable Disease) le malattie che non si trasmettono da una persona all’altra, a causa delle quali oggi nel mondo muoiono circa 60 milioni di persone circa il 70% dei decessi per malattia (p. 17).

Malattie del benessere che distruggono l’elemento vitale e che Risé – non senza correre il rischio di polemiche violente – attribuisce a un ripiegamento eccessivo sulla materia, a una negazione dello spirituale: «in particolare all’aspetto ascetico della spiritualità: la disponibilità cioè ad essere penetrato dallo spirito, ad aprirsi ad esso, anche accettando privazioni e diminuendo la partecipazione al mondo delle cose […] la persona con comunicabili è spesso chiusa nella materia, dalla quale fatica ad uscire […] Questa posizione passiva, di indifferenza verso la vita è già un indicatore e un produttore di depressione. […] Il ritirarsi dall’investigare il senso dell’esistenza esprime una posizione passiva, tendenzialmente depressiva, e promuove quindi un indebolimento della volontà, che viene invece viene nutrita proprio dalla ricerca di senso. […] La psiche e il cervello umano tendono anche al di là dell’io, verso l’altro e l’altrove. Se vengono rinchiusi al di qua, anche per effetto di pedagogie e modelli sociali esclusivamente utilitaristici, perdono forza e possono ammalarsi» (pp. 25-26).

Per Risé «abbondanza, sedentarietà, lontananza dalla fatica anche come regola di vita: queste le caratteristiche economiche e comportamentali del suicidio di massa europeo» (p. 119). Risé attacca anche lo “smontaggio del genere” di un certo modo di intendere la teoria gender (in particolare riferimento all’opera di J. Butler) intendendolo come un dispositivo complesso che tende a indebolire l’identità sia maschile che femminile riducendo la persona alle pratiche sessuali in un sistema di burocrazia sessuale dal carattere repressivo e disciplinare (p. 126).

Un cantiere non è una piazza in festa: c’è polvere e terra, fango e neve. Spesso le mani sanguinano, il pane non sempre è fresco, al posto del tè c’è acqua, qualche volta manca lo zucchero, non tutti qui sono eroi, e gli amici non sempre sono fedeli. Tirar su un edificio non è cantare una canzone

Nazim Hikmet, “Nel sangue e nel sudore”

Contrario alla deriva postumanista e per un nuovo umanesimo, Risé critica le conseguenze dell’automazione che trasforma l’ambiente rendendolo «meno vitale, meno intelligente, meno pronto. E alla fine meno felice» (p. 137). L’automazione rischia di ridurre lo slancio vitale dell’uomo rendendolo sempre più debole e insicuro. Risé disegna un quadro a tinte fosche dove i valori risultano rovesciati: «aspetti come l’umiltà, la semplicità, la natura e i sentimenti elementari, il silenzio, l’assenza di conferme, l’indifferenza, l’indifferenza al glamour ecc. sono considerati veri e propri controvalori, stravaganze inaccettabili, forse patologiche» (p.155).

Qualche decennio fa, gli intellettuali di sinistra avrebbero bollato questo testo come reazionario. Parole come spirito, riferimenti alla medicina teosofica, ai padri della chiesa, all’ascesi mistica non appartengono al culto della ragione economica imperante e all’ingegneria sociale. Oggi, nell’epoca delle passioni tristi e delle ragioni economiche, il libro potrebbe avere un’altra accoglienza e superare il recinto dei lettori di riferimento di una casa editrice cattolica. Siamo senza dubbio una epoca di smarrimento e di’iniquità e questo testo, potrebbe contribuire a ricostruire il contesto in cui viviamo, permettendoci di comprende meglio alcuni meccanismi in atto.

Tuttavia, il rischio della semplificazione, l’ambizione di aver trovato una chiave universale per comprendere i fenomeni sociali può essere una tentazione in cui cadere. In alcuni passaggi dell’opera Risé subisce il fascino di questa tentazione che chiude e ci consegna un testo da cui partire per ragionare e non un opera esaustiva che ci eviti la fatica di continuare a pensare.

Immagini: Getty

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