Non profit
Azzardo: un “gioco” senza fine
Le varie "bozze" presentate dal Governo per riorganizzare il settore dei giochi pubblici d'azzardo, l'ultima delle quali doveva essere presentata oggi in Conferenza Unificata Stato-Regioni, sono parti di un copione senza una trama: si recita a soggetto, ma si evita di assumere la responsabilità sugli esiti di quanto si auspica di adottare. E, soprattutto, si opera per tutelare interessi di parte e mai l'interesse comune. Ne parliamo con il professor Maurizio Fiasco (Alea)
di Marco Dotti
Giochi senza fine
Conviene ripristinare un ordine logico, che oramai si è smarrito e chiedersi: perché si è voluto ingigantire l'economia del gioco d'azzardo in Italia? Perché si è generato un consumo di massa del quale erano ben noti gli altissimi rischi? Perché si sono improvvisamente ignorate tutte le cautele che lo Stato italiano aveva rigorosamente mantenuto per oltre un secolo? In breve, come si è entrati in un "gioco senza fine" e perché non si sono preliminarmente scritte le regole per uscire dal gioco? Domande importanti, forse proprio per questo eluse da chi dovrebbe mettere mano a una situzione oramai insostenibile.
Abbiamo chiesto di guidarci al professor Maurizio Fiasco, sociologo, presidente di Alea, importante associazione che raggruppa i principali studiosi del problema, oltre che, da più di vent'anni, consulente della Consulta Antiusura.
Sembra che il documento del Governo, più che a una riduzione drastica dell’offerta di azzardo, punti a una sua riorganizzazione territoriale. Che cosa ne pensa?
Le varie "bozze" per riorganizzare il settore dei giochi pubblici d'azzardo sono parti di un copione senza una trama. Si recita a soggetto, ma si evita di assumere la responsabilità sugli esiti di quanto si auspica di adottare. L'obiettivo è calmierare il gioco? Allora buon senso vuole che la macchina dell'azzardo rallenti, e i numeri del suo consumo scendano molto al di sotto dei bilanci degli ultimi dieci anni, almeno. Dicono di correggere in parte la capillare distribuzione dei congegni da gambling. Ma tacciono sui traguardi di business che puntano a raggiungere. Infatti, se ridurre l'offerta non si traduce in una drastica recessione del consumo, ne potrebbe derivare una situazione addirittura più grave e più critica di quella attuale. È semplice da capire: se non si fissa un limite massimo alla cosiddetta "raccolta" (almeno del 30 per cento) allora si riorganizza l'infrastruttura in luoghi specializzati, a superficie più ampia, con tecnologie più "performanti". E dove? Nel territorio urbano, con ricadute pesanti sull'assetto che le amministrazioni locali hanno deciso di promuovere per le loro città. Pensiamo a quanto accadrebbe (ne abbiamo molti esempi già…) nelle strade che portano ai centri del gambling. Nei territori dei viaggi di andata e in quelli del deflusso dai prospettati "casinò di quartiere" si verifica e si installa di tutto: rapine agli avventori e agli esercenti, ricettazione e usura, risse, aggressioni, business collegati di acquisto di monili usati, prostituzione estemporanea di giocatrici e giocatori rimasti senza soldi… Per tacere del crollo dei valori immobiliari negli isolati e nei quartieri che accolgono questi case da giuoco.
Locali di tipo "A" o più semplicemente: casinò di quartiere
Se non ho capito male, intervenendo maldestramente sui luoghi (la fantasiosa classificazione degli esercizi pubblici in locali di tipo A e di tipo B proposta nella Bozza governativa) anziché su una riduzione totale e secca dell’offerta di gioco d’azzardo, si rischia dunque di riconfigurare l’intero territorio nazionale in funzione di questi luoghi…
È evidente che i redattori dell'ultimo documento circolato, da una parte sembrano proporre qualcosa di analogo a quanto esiste in Inghilterra e in Australia: il pub con una grande sala attigua, con tavolini di gioco vis à vis, display sugli allibramenti di corse, raccolta di scommesse… Da un altro lato trascurano che l'interior design delle macchine automatiche, slot machine o Vlt che siano, è incompatibile con tali ambienti "anglosassoni". Alla fine, cosa ne uscirebbe? Una miriade di casinò che sono solo a supporto dei totem delle nuove AWP e delle attuali VLT. Con tutto il lay out del caso: penombra, gingle, suoni infantili, profumi dolciastri nell'aria. Lo squallore già ben conosciuto, ma raddoppiato o triplicato.
Ma anche questo modello mal si concilierebbe con la riduzione del parco macchine…
L’ultima proposta che abbiamo sotto mano recita che il governo "stima" una discesa da 398mila apparecchi (slot machine) a 265mila… Facciamo due conti anche al netto di questa ipotetica e, per l'appunto, “stimata” riduzione. Ci ritroveremmo 265mila apparecchi distribuiti in 10mila locali “certificati”, con una media di 26,5 macchinette a sala. È possibile in meno di 300 metri quadrati?
L'obiettivo è calmierare il gioco? Allora buon senso vuole che la macchina dell'azzardo rallenti, e i numeri del suo consumo scendano molto al di sotto dei bilanci degli ultimi dieci anni, almeno. Dicono di correggere in parte la capillare distribuzione dei congegni da gambling. Ma tacciono sui traguardi di business che puntano a raggiungere.
Si creano le condizioni affinché il territorio italiano già invaso da macchinette e tipologie di azzardo di ogni forma e colore sia nuovamente invaso, stavolta da casinò di quartiere…
La posta in gioco è quella di creare sale integrate dove c’è tutta l’offerta all’interno dei quartieri. Oramai, la strumentazione di apparecchiature, punti di raccolta, sportelli, sale specializzate di scommesse è diventata imponente. Razionalizzarla e redistribuirla significa introdurre un nuovo modello ancora più aggressivo al contesto urbano e sociale.
Solo un diverso modello di business
Che cosa non funziona in questa prospettiva?
O si decide di dare un taglio generale e deciso a tutta la composizione dell’offerta o si dissolve ogni proposito di contenimento. Logica vuole che si valuti ex ante l'impatto e poi, eventualmente, si individui quel che del gambling possa risultare compatibile con l’organizzazione e l'ordinato svolgersi delle funzioni urbane primarie (residenza, mobilità, servizi, spazi di socializzazione, luoghi di culto).
Bisogna cambiare il criterio di intervento…
Esattamente. Prima osservare qual è la disposizione delle funzioni urbane primarie (ovvero la peculiare morfologia urbana) e da lì ragionare su che cosa e quanto quel territorio possa sostenere, in termini di offerta commerciale di gioco d’azzardo: ragionevolmente e senza interferenze inaccettabili…
Qui si è invece fatto il contrario…
Poiché c’è un prodotto (e in quelle imponenti scorte!) deve comunque esser piazzato. Chi se ne importa dei territori e dei legami sociali della popolazione, degli usi e delle abitudini quotidiane. La valutazione di impatto ex ante non è stata mai tentata per nessuna tipologia di gioco d’azzardo in Italia. La “visione” degli attori del business è molto semplice: abbiamo questa tecnologia, disponiamo di questo knowhow, abbiamo investito un budget… e adesso, dove piazziamo il tutto?
Non sono partiti dalla caratteristica dei luoghi, con la scusa e l’alibi della “omogeneizzazione”…
Il buon senso suggerirebbe di compiere una ricognizione delle caratteristiche delle città, dell'equilibrio da salvaguardare, aiutandosi con la lettura del piano generale degli investimenti locali. A quel punto si dovrebbe verificare se l'investimento in azzardo possa risultare compatibile. No, la sequenza logica propugnata annulla questi dubbi capitali. E sostiene un'affermazione perentoria: "ormai ci troviamo in funzione 389mila slot machine, ci risultano 5mila sale giochi dove accanto ai videogame funzionano le slot machine (dunque minorenni e adulti fianco a fianco…), e sono aperti altri 14mila locali dove si raccoglie, si vende, si fa azzardo di varia natura. Sono un fatto e perciò il quesito è come li ridistribuiamo.
La sostituzione delle macchine non è dettata dal bisogno di ridurre i danni e gli effetti collaterali del gioco d’azzardo o di ridurre l’offerta, perché comunque – vediamo gli esposti fatti alla Corte dei Conti – non si vuol rinunciare a determinati cespiti. Non vuole declinare lo Stato, non vuole rinunciarvi l’industria. Quindi il downsizing "nominale" può rovesciarsi persino in aumentando del profitto. La riduzione promessa, a fronte di una rivoluzione tecnologica e alla “normalizzazione” dell’offerta, può incentivare paradossalmente un consumo di gioco ancora maggiore.
Si devono ridistribuire per forza?
L’interesse pubblico viene messo in secondo piano rispetto all’interesse privato di questa megamacchina che non esisteva in Italia fino a 15-20 anni fa.
Questa mega-macchina, manovrata da fondi di investimento, è vorace…
Ha costruito delle aspettative azionarie, di ritorno, di investimento finanziario.
Se questo progetto andasse in porto ci troveremmo davanti a un punto di rottura inaudito nell’architettura istituzionale del nostro Paese…
Torniamo alle origini. Da sempre lo Stato ha avuto un atteggiamento contenitivo molto netto nei confronti dell’entrata in funzione di quelle che un tempo si chiamavano “case da giuoco”. Perché la “sala da giuoco” per la sua natura, la sua complessità, la sua organizzazione, il flusso di avventori che determina, per gli effetti indotti sull’ordine pubblico, la ricettazione, l’usura, le risse era vista come uno spazio di particolare pericolosità per l’ordinato svolgimento della convivenza. E su questo presupposto, lo Stato italiano ha sempre avuto una forte contrarietà all’apertura di “case da giuoco”. A poco a poco, seguendo un modello sequenziale, step by step, negli ultimi 15-20 si è di fatto alzato il livello e oggi ci troviamo davanti al fatto compiuto: 398mila slot machine, etc. etc.
Davanti a questo fatto compiuto: 398mila slot machine, 51mila videolotteries, 83mila locali dove si vende azzardo…
Davanti a un fatto compiuto, si fa passare un prospect (“non possiamo tornare indietro”) e, davanti all’incapacità di innovare processi cognitivi, si fa un salto logico: che cosa ne facciamo di tutto questo azzardo? Come la possiamo ricollocare?
Dove lo piazziamo? Torniamo sempre lì, alla tutela dell’offerta e non della salute, sicurezza e dignità di cittadini e luoghi…
La domanda a cui non vogliono rispondere: è compatibile tutta questa offerta di azzardo con la crisi? Si concilia con sicurezza pubblica? Ha riflessi trascurabili sulla salute? È rispettosa della morfologia delle nostre città? È accettabile per il quadro di beni giuridici tutelati dal nostro ordinamento? Esiste una capacità sociale di metabolizzare questo consumo? Come si applicano le norme che devono salvaguardare le fasce più esposte della popolazione? E allora, solo allora, quando si è data risposta a tutti i quesiti, si può procedere. Non viceversa.
Il soggetto assente: la città
Nel mercato dell’azzardo è l’offerta che crea la domanda. Non si può partire dal presupposto che l’offerta esista perché c’è una domanda naturale a cui rispondere. La domanda esiste perché è stata diffusa morfina sociale tra la popolazione…
Se s'intende riorganizzare il sistema dei giochi, si è obbligati a partire dall’’interesse pubblico. Cosa e quanto le città possono sopportare? A quali condizioni? E che cosa è tollerabile?
Perché dal maggio scorso alla Conferenza Stato-Regioni vengono presentate bozze di “riordino dei giochi pubblici” (rectius: azzardo di Stato) palesemente incompatibili con un interesse concretamente pubblico? C’è una logica in questa mancanza di logica istituzionale? Giocano anche alla “prevenzione”…
Prevenzione è separare l’azzardo dai bioritmi quotidiani, sia quelli individuali e sia quelli sociali. Bisognerebbe partire da una disamina della popolazione (fasce d’età, profili, condizioni abitative, tipo di impegno, di stress a cui è sottoposto l’apparato biofisico e biopsichico), considerare la città come un organismo vivente, con un equilibrio ecologico molto precario. Si tratterebbe di individuare, a monte, quali parti della città sarebbero sotto pressione, dunque in stato di stress. E, in una considerazione sistemica, quali nodi della città contrarrebbero una patologia che poi si riverberebbe su tutto l’organismo. Solo dopo una risposta seria ai quesiti, si potrà individuare cosa in quel determinato spazio urbano possa esservi collocato e cos'altro no. Si fa una valutazione di impatto ambientale di tipo relazionale.
Prevenzione è separare l’azzardo dai bioritmi quotidiani, sia quelli individuali e sia quelli sociali. Bisognerebbe partire da una disamina della popolazione (fasce d’età, profili, condizioni abitative, tipo di impegno, di stress a cui è sottoposto l’apparato biofisico e biopsichico), considerare la città come un organismo vivente, con un equilibrio ecologico molto precario.
Nel Documento presentato dal Governo alla Conferenza Unificata c’è anche di peggio, si muta radicalmente il modello di distribuzione, per consentire a chi fa business una migliore estrazione di valore da vite, luoghi, territori
C’è il passaggio da una distribuzione industrializzata ad un’altra più strutturata, proprio per superare i limiti intrinseci che sono presenti in installazioni di gioco dentro attività che hanno tutt’altra origine, matrice e funzione. È evidente che dentro un bar le slot machine oltre a certe prestazioni le gambling machine non possono arrivare.
Questo è il punto cruciale…
La sostituzione delle macchine non è dettata dal bisogno di ridurre i danni e gli effetti collaterali del gioco d’azzardo o di ridurre l’offerta, perché comunque – vediamo gli esposti fatti alla Corte dei Conti – non si vuol rinunciare a determinati cespiti. Non vuole declinare lo Stato, non vuole rinunciarvi l’industria. Quindi il downsizing "nominale" può rovesciarsi persino in aumentando del profitto. La riduzione promessa, a fronte di una rivoluzione tecnologica e alla “normalizzazione” dell’offerta, può incentivare paradossalmente un consumo di gioco ancora maggiore.
Dentro a un esercizio pubblico, oltre a una certa soglia, non si riesce a vendere gioco d’azzardo, ma dentro un casinò di quartiere, con macchine integrate con le nuove tecnologie si possono raggiungere livelli altissimi di profitto…
Stanno tentando un passaggio evolutivo dell’azzardo di massa, vendendola come misura di “tutela”, di “salvaguardia”, di “prevenzione”. Questo sospetto è legittimo, proprio per il percorso logico seguito nelle varie bozze governative. C’è una logica alla quale manca sempre un soggetto principale. Dovrebbe per l'appunto essere l’organismo vivente chiamato città: quel complesso di equilibri delicati e suscettibili che la connota. Assistiamo a prese di posizione che denotano un analfabetismo non solo di sociologia, ma di antropologia urbana. Manca l'interesse per l'entità che può patire danni o ottenere benefici: la città, per l'appunto. Non come mero spazio fisico, ma ambiente relazionale, emotivo, psicologico. Tutto questo manca. E non è poco, è tutto.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.