Politica

Referendum, 10 ragioni per dire Sì

L’opinione di Riccardo Bonacina che apre il numero di Vita Bookazine in edicola. «L'appuntamento referendario del prossimo 4 dicembre, poteva rappresentare l’occasione per rifondare intorno alla Costituzione la cultura politica del Paese. Non è stato così sino ad ora, per colpa un po’ di tutti, dei troppi che invece di ragionare, conoscere e discutere amano indossare una casacca di parte per cercare la zuffa»

di Riccardo Bonacina

L’appuntamento referendario del prossimo 4 dicembre, poteva rappresentare l’occasione per rifondare intorno alla Costituzione la cultura politica del Paese, smarrita, dispersa, svilita in maniera sconsiderata e irresponsabile negli ultimi decenni e sacrificata sull’altare di interessi consociativi, clientelari, chiusa dentro i Palazzi abitati per oltre un decennio da soli nominati (altro che Italicum!). Col referendum costituzionale, infatti, in questione non c’è un voto favorevole o contrario al Governo, ma qualcosa di più e di diverso, qualcosa che riguarda l’identità della nostra stessa democrazia, il suo funzionamento e la sua sostanza, o ciò che ne resta dopo lunghe stagioni di asfissia e di scollegamento dalla società.

Si trattava e si tratta di un’opportunità di una grande discussione pubblica per affermare come la cultura costituzionale del nostro Paese possa oggi rigiocarsi in un contesto e in condizioni assai diverse da quelle in cui era nata 70 anni fa.

Non è stato così sino ad ora, per colpa un po’ di tutti, dei troppi che invece di ragionare, conoscere e discutere amano indossare una casacca di parte per cercare la zuffa comunque sia e a prescindere dal merito. Proprio per questo ho in questi mesi apprezzato le centinaia e centinaia di incontri di approfondimento e discussione organizzati da realtà della società civile mentre il ceto politico si azzuffava, spessissimo pure impreparato, nei salotti tv.

Come è noto saremo chiamati a dire sì o no a una legge di revisione costituzionale (che il Parlamento ha varato nel rispetto rigoroso di ciò che la stessa Costituzione prevede all’art. 138). Da marzo 2014 ci sono volute 173 sedute (l’Assemblea costituente ce ne mise 170), oltre 5mila votazioni, quasi 5000 interventi nei vari passaggi parlamentari e sono stati presentati 83 milioni di emendamenti! Si tratta quindi di una legge frutto di tante mediazioni, ciascuno e ciascuna parte può immaginare una legge migliore, ma il problema è trovare poi il consenso e l’energia per darle gambe. Il fatto che tale energia e consenso (sia pure a geometrie variabili) siano stati trovato dopo oltre trent’anni è cosa da non sottovalutare per chi è convinto che il cambiamento sia meglio della conservazione.

Questa modifica della Costituzione punta a rafforzare e semplificare il governo del Paese, la macchina statale, e perciò interviene solo sulla Parte Seconda della Costituzione (quella che si occupa dell’ordinamento della Repubblica, cioè dell’organizzazione dei poteri pubblici); invece la Parte Prima (che stabilisce i Principi fondamentali e contiene il catalogo dei diritti e dei doveri delle persone) non è toccata perché rimane bellissima.

Ora, il tema per chi da anni è impegnato per cambiare le cose, le cose che non vanno, cercando di incalzare la politica perché sia possibile un più di democrazia e di giustizia, è capire se in questa Riforma risuonano i contenuti delle battaglie e delle rivendicazioni di questi anni. Al sottoscritto pare di sì. L’instabilità, dodici governi negli ultimi venti anni, verrà finalmente superata? Cesserà il dominio del Governo sul Parlamento con la sequenza decreti legge-maxiemendamenti-fiducia? E le lunghe stagioni di ignavia di un Parlamento di nominati? Le grandi infrastrutture strategiche saranno finalmente decise a livello centrale? Si potranno riattivare forme di partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche? Verrano superate le differenze di trattamento territoriale su diritti elementari come sanità e lavoro?

La riforma al sottoscritto pare rispondere positivamente a questi interrogativi. Poiché una delle grandi difficoltà delle democrazie occidentali è costituita dalla estraneità dei cittadini alla politica, dovrebbe essere particolarmente sottolineata quella parte della riforma che riconosce il diritto dei cittadini al referendum propositivo e a vedere prese in esame entro un determinato termine le proposte di legge di iniziativa popolare, che oggi finiscono in un cestino o in un cassetto del Parlamento ( e ne giacciono di ottime). Che dopo 35 anni di discussioni e dibattiti sia urgente riorganizzare i poteri pubblici secondo i principi di maggior efficienza e di apertura di spazi di vera democrazia anche con l’introduzione, prevista dalla Riforma, dei referendum propositivi e di percorsi certi per le leggi di iniziativa popolare (ne giacciono di bellissime nei cassetti del Parlamento) è necessità evidente, urgenza che neppure D’Alema o Brunetta disconoscono.

Che ci sia la necessità di una politica migliore, che cammini al passo con i cambiamenti sociali ed economici, guardandoli senza addormentarsi è altra urgenza. Chiunque abbia seguito e avuto a cuore un iter legislativo in questi anni sa che il bicameralismo perfetto ha dato vita a percorsi legislativi lunghi e inutili, con estenuanti fiere delle vanità di politici e capi bastone, con il diluvio di doppie o triple audizioni, con le milionate di emendamenti per cambiare una parola o un accento. Basti ricordare l’inutile anno in Senato per la Riforma del Terzo settore o gli 8 mesi di fermo, sempre al Senato per la legge sul Commercio equo e solidale.

La corsia preferenziale alla Camera per i provvedimenti legislativi del Governo, come prevede la Riforma (in 70 giorni il Parlamento dovrà approvare oppure no), eviterà il ricorso abnorme alla decretazione d’urgenza che negli ultimi anni ha svuotato di dignità e senso lo stesso Parlamento. Come ha ricordato il Presidente emerito Napolitano: “Per nove anni ho ricevuto gruppi delle opposizioni che lamentavano un Parlamento ridotto a uno straccio, perchè quando si fa votare una legge Finanziaria con un maxiemendamento di un unico articolo e 1.300 commi significa uccidere il Parlamento. Il pericolo maggiore per una democrazia matura come quella italiana è la delusione e l’apatia di una cittadinanza scoraggiata dall’immobilismo, dai trasformismi, dai veti incrociati”.

Il processo di decentramento avviato negli anni settanta e proseguito nel 2001 con la riforma del “Titolo V”, che dà un potere legislativo e non solo amministrativo alle Regioni, ha accelerato la crescita della spesa pubblica corrente, con sprechi e inaccettabili disequilibri tra le varie aree del Paese. Correggerlo significa anche farla finita con le migliaia di contenziosi che nascono dal conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni e farla finita con un’intollerabile diseguaglianza in settori fondamentali come la sanità (ci sono troppe differenze, troppe storture e troppe inefficienze nella sanità di molte Regioni; in questo modo i cittadini non sono uguali) e il diritto al lavoro dignitoso. Penso al contrasto alle povertà: oggi se ne occupano Comuni e Regioni a macchia di leopardo, mentre lo Stato contribuisce residualmente con la carta acquisti. Ci vorrebbe un sistema di finanziamento nazionale affiancato da un cofinanziamento locale. Questo responsabilizzerebbe gli enti locali a controllare che i soldi vadano davvero a chi ha bisogno e a spingere chi può a lavorare. Un altro esempio è la riforma degli strumenti per la concessione di assegni di invalidità: oggi la competenza è divisa fra Inps e Asl con sovrapposizioni evidenti, lungaggini e contenzioso.

Abbiamo bisogno di un Paese più semplice, che preveda un minor costo della politica (meno parlamentari, meno enti inutili come il Cnel), meccanismi più trasparenti ed efficienti, un sistema istituzionale migliore, che consenta la stabilità dell’Esecutivo anche per le mediazioni necessarie in ambito sovranazionale (Europa, Nato, Onu, ect), e una sua reale alternanza.

Io penso che il NO sia un voto di conservazione, il voto di chi vuole che tutto rimanga com’è e un’eventuale vittoria di chi sostiene questa tesi rappresenterebbe l’interruzione di un processo reale di cambiamento e del pur certamente insufficiente processo di riforme indispensabili per risollevare il Paese. La vittoria del SI consentirebbe invece di apportare ulteriori e necessari miglioramenti al processo riformatore. Magari coinvolgendo di più la società civile che in questo frangente ha dato prova di maggior maturità della politica.



Il numero di Vita Bookazine sarà presentato con un incontro pubblico a Sharitaly, martedì 15 novembre alle ore 14


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