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Boeri: Quei paesi schiacciati dai tetti

L’architetto è stato ad Amatrice. «Basta vedere quelle falde quasi intatte per terra per capire cosa non è funzionato». E suggerisce: «I boschi sono la risorsa su cui puntare, non solo per restituire le case ma anche per immaginare una nuova filiera produttiva. Proprio come in Friuli»

di Giuseppe Frangi

«Ieri, con gli architetti del mio studio e gli imprenditori della filiera friulana del legno, ero ad Amatrice. E di questa tragedia, mi hanno colpito i tetti». Sono note di viaggio di Stefano Boeri, pubblicate sulla sua pagina Facebook. L’architetto è stato nell’epicentro del terremoto del 24 agosto per impostare un progetto che verrà presentato a breve dal Corriere della Sera e da La7. Il suo punto di vista è molto interessante, ovviamente per le competenze che ha. Ma non solo per quelle.

Perché le hanno fatto tanta impressione i tetti di Amatrice?
Basta vedere il corso principale di Amatrice che non esiste più, perché è stato cancellato, sepolto dalle valanghe di macerie. Sono macerie speciali, con tetto sopra. Quei tetti con i cordoli in cemento armato erano stati realizzati 15, 20 anni fa pensando di dare solidità agli edifici. In realtà si trattava di tetti pesanti che hanno resistito alle scosse, e quindi li vedi spesso quasi integri, ma con il loro peso hanno polverizzato le pareti di pietra e malta e schiacciato le case in pietra e cemento. E naturalmente, quel che è peggio, i loro abitanti. I tetti per terra. Ecco il paradosso crudele che spiega, meglio di molte altre immagini, la tragedia di Amatrice e di molti altri centri avvolti e stravolti dal cratere di un mostro.

Questo cosa insegna in vista della ricostruzione?
Che in queste zone bisogna cambiare filosofia nella costruzione delle case. C’è un dato che unisce gran parte dei territori italiani più esposti al rischio sismico: sono territori in gran parte sulla dorsale appenninica con grande ricchezza di boschi. Attorno ad Amatrice ad esempio ci sono boschi ricchissimi di querce, faggi e castagne: il legno può essere l’elemento base per una ricostruzione. Ha caratteristiche di elasticità, di leggerezza, è adatto sia in caso di ristrutturazioni (per le solette dei pavimenti, o per i tetti ad esempio) sia in caso di nuovi edifici. Ed è anche veloce, specie nei casi di montaggio di prefabbricati. Oltretutto è materiale in loco, il che comporta un altro vantaggio.

Quale?
Quello di mandare a rendita una risorsa del luogo. Attorno al legno può nascere una nuova filiera, com’è accaduto ad esempio in Friuli. Ci vogliono tante competenze, a partire da quelle che riguardano il taglio dei boschi, che oltretutto va a vantaggio della buona salute dei boschi stessi. In zona esistono già competenze utili, come quelli della filiera del mobile nelle Marche. Si tratta di investire e di creare così anche nuove opportunità di lavoro, sul modello del Friuli.

Per questo ha portato con lei i rappresentanti della filiera friulana del legno?
Sì, con loro faremo gli interventi che stiamo studiando con i fondi raccolti dal Corriere e da La7. Ma il Friuli è stato un modello anche da questo punto di vista. Ricordo che le priorità fissate con molta chiarezza dal commissario unico Zamberletti erano queste: prima i luoghi del lavoro, poi le case, infine le chiese. Il lavoro è il segreto per garantire una ripresa di vita in queste zone. E il legno può essere un’opportunità su cui puntare.

Ricostruire puntando sul legno vuol dire però costruire staccandosi dall’immagine che questi borghi hanno sempre avuto…
​Certamente in Friuli hanno preferito attenersi alla regola del ricostruire tutto dov’era e com’era. Nel caso di tanti centri colpiti dai terremoti di questi mesi si può pensare invece a una progettazione più innovativa, che sia coerente e rispettosa del contesto ma che sia anche coraggiosa. È una scelta che suggerisce anche nuovi modelli di sviluppo per queste zone.

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