Non profit
Azzardo, fondi, algoritmi: con l’accordo Intralot-FIGC è sfida aperta al sociale
In casi come quello della sponsorizzazione di Intralot-FIGC a interrogarci dovrebbe essere soprattutto il modus operandi di società multinazionali complesse, con un business diversificato che va dalla biometria alla farmaceutica all'azzardo: perché, a fronte della loro indubbia potenza di fuoco, hanno necessità di investire nel sociale, di promuovere campagne di "prevenzione", di entrare in ogni luogo dove si genera calore umano, in questo caso lo sport?
di Marco Dotti
Welcome in Playland
In casi come quello della sponsorizzazione di Intralot-FIGC a interrogarci dovrebbe essere soprattutto il modus operandi di società multinazionali complesse, con un business diversificato che va dalla biometria alla farmaceutica all'azzardo. Corporations globali che, per chiudere il cerchio dei loro profitti, cercano di "normalizzare" la protesta e la reazione critica rispetto al lato eticamente compromesso e scoperto del loro business – l'azzardo – intervenendo chirurgicamente su sociale, informazione, cultura e educazione.
Andiamo al cuore del problema, senza girarci attorno. Perché multinazionali brutte sporche e cattive dell’azzardo locale-globale, che fanno un business brutto sporco e cattivo ma – ahinoi – legale non si accontentano di fare il loro business brutto, sporco e cattivo (e – ripetiamolo: ahinoi – legale), ma puntano i piedi su pubblicità e sponsorizzazioni? Tra legalità e legittimità il confine è labile e, si sa, si può avere copertura nelle forme, ma la sostanza è tutta un'altra cosa. La legittimità – che è sostanza – sociale, culturale, etica e politica trascende le forme. E non si quota al mercato.
Il nodo della "gaming reputation"
Perché corporations potentissime, ma dai fragili equilibri reputazionali, cercano qualche piccolo Caronte fra clinici, psichiatri, preti, intellettuali, non profit e sportivi compiacenti per traghettate indenni oltre quello che a loro pare l'inferno della critica, ma è solo crescente consapevolezza sociale e far passare l’idea che il loro prodotto non sia altamente tossico e nocivo in sé, pensato e progettato proprio per essere nocivo e tossico in sé (+nocività e dipendenza significa +profitto, e siccome non lavorano se non per profitto, +profitto significa +dipendenza), ma sia un prodotto di consumo come tutti gli altri e solo l’abuso del “giocatore irresponsabile” creerebbe problemi di patologie individuali e sociali? Mia risposta: perché solo chiudendo il cerchio e manipolando il senso comune avranno la meglio sul buon senso. Solo indicando l'untore si nasconde la peste. La gaming reputation è una questione cruciale del profitto: già solo il fatto che nel dibattito pubblico si comincino a chiamare le cose con il proprio nome – gambling, azzardo – crea problemi a questo modello di business. Ecco perché riuscire a orientare il discorso pubblico – la cosiddetta public conversation – verso obiettivi marginali o sbagliati diventa centrale. Per loro, ovviamente.
Gatekeeping: se gli esperti "recitano a soggetto"
I loro clinici da guardia dicono che «siamo sulla stessa barca» e che proprio grazie alla loro professionalità e mediazione queste entità transnazionali che affondano le loro terminazioni finanziare/nervose nei territori si battono per legalità, prevenzione, responsabilità. C’è chi – anche qualche senatore, invero – ha persino affermato pubblicamente e in sedi istituzionali che le baratterie (nel basso Medioevo così chiamavano le bische legali; oggi si usa l’inglese e le chiamano gaming hall per coprire l'inganno) ovvero le sale gioco sarebbero un avamposto di cura e salute posto a presidio e tutela di legalità, salute e sicurezza. Un paradosso? Peggio, molto peggio.
Le aziende di gambling operano seguendo una strategia ben nota al marketing: il gatekeeping, ovvero di controllo dei "cancelli" attraverso cui filtrano informazioni. Fondamentale, in questo caso, il reclutamento di esperti (gatekeepers) che quei cancelli li tengano ben chiusi. Cosa che, evidentemente, in questi anni, non hanno saputo fare. E così il dibattito, nel Paese, è diventato un vero dibattito, non un gioco delle parti dove tutti fingono di dire ciò che l'altro non si aspetta, ma – sempre per citare Pirandello – «recitano a soggetto».
Leggiamo da Wikipedia: «Il gatekeeper è colui che attua l'azione di gatekeeping. Occupa la posizione di "esperto" (politici, scienziati, sociologi, scrittori) in un determinato ambito della società e ha il compito di filtrare le informazioni in quello specifico ambito. Può agire in diversi modi: in maniera inconscia, poiché anch'egli può essere influenzato o condizionato da informazioni che possono essere giuste o sbagliate, o consciamente per scopo personale o economici. I gatekeepers usano come principale strumento i veicoli di informazioni perché è importante ciò che appare nei media. Tutti i personaggi che hanno particolare rilievo positivo sui media di massa sono potenzialmente gatekeeper».
Ecco perché il dibattito aperto e franco, non gestito o manipolato da esperti che recitano a soggetto, è visto come la peste e tacciato di "moralismo" (= si tenta di ricacciarlo nell'angolo delle opzioni individuali), quando è invece – né più, né meno – un dibattito sull'ortoprassi nel mondo dell'economia e sull'etica nello spazio pubblico.
«Siamo sulla stessa barca», dicono i gatekeepers. Ma è pura retorica, a cui nessuno – nemmeno loro – crede più. Perché non siamo sulla stessa barca. Non lo siamo mai stati. Non si è sulla stessa barca quando c’è chi mira a far profitti gettando gli altri in mare. Gli squali hanno fame. Scegliete voi chi sia lo squalo, chi l'ammutinato e chi cerchi di portare in salvo la barca in questa triste storia.
Movimenti di integrale sfruttamento dell'umano
Noi torniamo al cuore del problema, quello che ci interessa: per quale ragione corporations dal fatturato multimilionario cercano, hanno cercato e sempre cercheranno con ogni mezzo e invadente insistenza di penetrare, dietro le mentite spoglie di apparenti campagne di prevenzione lautamente finanziate, in settori quali l'educazione, la cura, il welfare e, appunto, la prevenzione?
Forse perché è lì – ricordiamoci che certa finanza ha sensori raffinatissimi quando si tratta di individuare il calore umano e reprimerlo – che si gioca la partita decisiva. La sola che conta. In un contesto di complessità e finanziarizzazione crescente: o si è per l’uomo o si è contro di lui. Togliamo il "forse", perché oramai abbiamo capito come stanno le cose: è lì, sul terreno del sociale e del culturale che si deciderà se vorremo dare al nostro stare insieme una forma dissipativa (una zattera alla deriva) o quella di una vera comunità di destino.
Che cosa c'entra l'azzardo con tutto questo? Finanza, algoritmi, sistemi di biocontrollo, investimenti multipli in settori quali le biotecnologie, la biometria, le piattaforme, la sanità e la farmaceutica, l'istruzione "gamificata", data mining, gig economy, comportamentismo, marketing neurale e azzardo mediato dalla tecnologia… dietro una apparentemente banale macchinetta, c'è tutto questo, dagli algoritmi in giù: mica "sorte", "abilità" o fortuna. Ma il trucco sta nel far credere non siano movimenti interconnessi. Movimenti di integrale sfruttamento dell'umano.
Perché al netto dei convegni sovvenzionati, dei piani marketing passati, presenti, futuri ma sempre spacciati come attività di comunicazione sociale, dietro il business dell'azzardo c’è solo la biofinanza. La finanza di fondi di investimento che non a caso controlla alcuni dei principali concessionari di Stato, vista la “diversificazione” dei sui investimenti (per esempio nel settore dei pagamenti elettronici e farmaceutico), mal tollera che tutto questo si sappia. Che il re sia nudo è un dato di fatto, ma nessuno lo deve dire al re. Ci vogliono ciechi in un Paese di ciechi. E allora si cerca di chiudere il cerchio di un disastro materiale (per il Paese) e reputazionale (per loro), affinché sui mercati chi investe e trae profitto anche da operazioni legate all'azzardo non faccia troppa fatica nel mascherare non solo l'imbarazzo, ma la propria incoerenza profonda, sostanziale (la legittimità, non solo la "legalità") con ogni principio di etica pubblica, di pubblica utilità e persino di convivenza umana. Il politicamente corretto assume qui la spolverata dei bilanci sociali.
Approfondimenti:
- Marco Aime: "L'azzardo e la finanza sono la stregoneria del nostro mondo"
- Avvocato Laser, "Quella differenza fra azzardo e scommessa che non c'è"
- Marco Dotti; "Se l'azzardo diventa una variabile subordinata del business dell'azzardo"
- Peter Dizikes, "Dentro la macchina. Architetture dell'azzardo"
Il gusto per le feste e per il fasto germoglia nel cuore dei potenti; vogliono il lusso; opprimono il debole per soddisfarsi. Non conoscendo il prezzo delle opere delle arti che sono loro sconosciute, tutto sembra loro meraviglioso e prezioso. Lo straniero ne approfitta. Il denaro diminuisce e scompare. La cultura ne soffre e il reddito nazionale diminuisce. Lo Stato tocca il fondo, il male è all’apice
Ferdinando Galiani, Dialoghi sul commercio del grano, 1770
Il campo di battaglia è il sociale
Ecco allora che il caso Intralot-Figc non è un’eccezione, né il colpo di testa di qualche dirigente incurante delle conseguenze. Le conseguenze si conoscono, almeno dal lato delle corporations. Dall'altro, un'opera di lavoro sulle coscienze e di discernimento può, però, cambiare le cose. Anche qui, se andiamo al punto, dobbiamo convenirne non solo che tentativi di sponsorizzare (ricordate il caso-Adiconsum quasi del tutto simile a questo e finito con le dimissioni del segretario della nota – e rispettabile – associazione di consumatori?) o finanziare (ricordate i tanti tentativi istituzionali di fare da schermo a operazioni del genere, introducendo in norme ad hoc un «fondo buone cause» per finanziare il welfare con l’azzardo?) individuano un vero e proprio modus operandi. Ed è questo modus operandi, a mio avviso, il cuore del problema. Affrontarlo con gli strumenti della critica o asservirsi, non c'è altra scelta.
Non è storia nuova, ma dalla storia non abbiamo imparato molto se è vero che già nel quinto dei suoi otto Dialogues sur le commerce des bleds, pubblicati a Parigi nel 1770 da madame d’Epinay e Denis Diderot, già l’illuminista napoletano Ferdinando Galiani osservava che un popolo di giocatori altro non è che un popolo di ciechi. I commerci di questi ciechi sono costantemente in perdita, il debito pubblico e privato avanza e avanzando perverte le finalità del corpo politico – lo Stato – non meno dei «diritti essenziali della sovranità» che vengono «impegnati, alienati, usurpati».
In una società di ciechi, dediti a rimestare pula e a giocare d’azzardo, continuamente nascono nuovi apparenti bisogni, e nuovi apparenti desideri pervertono i vecchi, mentre «il gusto per le feste e per il fasto germoglia nel cuore dei potenti; vogliono il lusso; opprimono il debole per soddisfarsi. Non conoscendo il prezzo delle opere delle arti che sono loro sconosciute, tutto sembra loro meraviglioso e prezioso. Lo straniero ne approfitta. Il denaro diminuisce e scompare. La cultura ne soffre e il reddito nazionale diminuisce. Lo Stato tocca il fondo, il male è all’apice».
«Con il piede straniero sopra il cuore»
Un popolo di giocatori, insegnava l’abate Galiani quasi anticipando le tesi di Thorstein Veblen su azzardo e consumo vistoso, è ben disposto verso l’allegria, ma non è mai contento. Verserà la propria quota col sorriso sulle labbra e lo Stato incasserà, ma fino a quando? Cercando una grazia inframondana, la moltitudine troverà una mondanissima disgrazia. Sapremo cogliere la lezione antica eppure modernissima di Galiani? Il clinamen critico sull'azzardo è tutto qui. Il resto è sfumatura sulla quale potremmo ricamare infiniti esercizi di indignazione o di stile. Ma chi ha a cuore le cose, saprà guardarle in faccia e chiamarle per nome. Se il re è nudo, meglio farglielo sapere.
In copertina: Roma nel dicembre del 2012 (Filippo Monteforte/Afp/Getty Images)
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