Cultura

Ai Weiwei: così vi faccio guardare i profughi che non volete vedere

A tu per tu con il popolare artista cinese, in Italia per inaugurare la sua prima grande mostra nel nostro Paese. Ha appeso i gommoni da salvataggio sulle facciate di Palazzo Strozzi: «Non è una provocazione ma un invito ad un altro modo di sentire l'umanità». E in questi tempi difficili «il contributo dell'Italia è molto forte: il Paese è ben disposto verso i rifugiati, non li manda mai via. L'Italia mette insieme accoglienza e umanità, e questo contesto rafforza la voce della mia opera»

di Giuseppe Frangi

ll personaggio è tutto di un pezzo. Piedi piantati per terra, sguardo sempre molto curioso, atteggiamento per nulla da star. Lo incontriamo nel caos festoso del Mercato generale a Firenze alla vigilia della presentazione della sua mostra, la prima in Italia, organizzata da Palazzo Strozzi. Guardando Ai Weiwei si capisce al volo quanto gli piaccia stare tra le persone, mangiare insieme, scambiare battute, ridere. Al Mercato, tra centinaia di persone ai tavoli, ha portato un appendice della sua mostra: sono riproduzioni gigantesche, posizionate nella parte alta della navata di alcuni scatti di “Study of perspective” (Studio prospettico).

Un titolo ironicamente specialistico e tecnico, perché in realtà si tratta di immagini scattate in luoghi mitici del mondo in cui l’effetto di prospettiva è dato dalla sua mano in primo piano con tanto di dito medio alzato. Ironia e demitizzazione sono due chiavi dell’arte di Ai Weiwei. Nato a Pechino nel 1957, è uno degli artisti più globali e mediatici del terzo millennio. Ha avuto rapporti controversi con il suo Paese, è stato anche in prigione con accuse del tutto pretestuose, è costantemente tenuto sotto osservazione, per quanto ormai gli sia permesso girare in ogni angolo del mondo.

Ai Weiwei, forse anche per ragioni personali (il padre, grande poeta, è stato umiliato dal potere comunista cinese) ha un’attenzione particolare per tutte le vittime del potere e dell’ingiustizia. L’emergenza dei migranti ha occupato la sua riflessione e la produzione artistica dell’ultimo anno. Ma tutta la sua opera ha sempre una fortissima connotazione sociale, spesso anche provocatoria. A Firenze ha proposto un allestimento clamoroso di Palazzo Strozzi, uno dei più bei palazzi del Rinascimento, appendendo sulla facciata 22 canotti di salvataggio, che coprono le finestre del primo piano.

Ha intitolato l’opera "Reframe", cioè “nuova cornice”. Anche le eleganti e magnifiche finestre del palazzo devono essere “reincorniciate” per dare spazio ad una drammatica esperienza che segna il nostro tempo. Spiega: «I profughi devono essere considerati i veri e propri eroi dei nostri tempi: chi cerca la libertà a prezzo della vita merita il nostro assoluto rispetto. Io mi considero un loro fratello, li chiamo tutti “miei fratelli”».

L’esperienza a Lesbos lo ha profondamente segnato: «È qui che ti rendi conto che la situazione è serissima. Qualsiasi cosa stia succedendo, è chiaro che non la stanno comunicando al mondo. E noi fingiamo di non vederli. Soprattutto in Europa. Mentre ero là, centinaia di persone sono annegate nel mare. Eppure basterebbe dare loro un po’ di soldi e farli trasferire in modo più sicuro, anziché darli in pasto agli scafisti. Devono pagare un sacco di soldi. Muoiono persone ogni giorno. Muoiono anche i bambini».

L’idea dei gommoni è scatta proprio lì, come ha raccontato ad Hans Ulrich Obrist. Un giorno ne ha fotografato uno abbandonato, «era uno Zodiac», ricorda. «Riempito d’aria e ho immaginato alle 30 o 40 persone stipate in cima. Quando l’ho trovato non c’era nessuno a bordo. C’era solo qualche rimasuglio, un passaporto, un biberon, il portafogli di una nonna. E non sapevo dove fossero gli esseri umani».

Da artista il suo impegno ha sempre come obiettivo quello di smuovere le coscienze. Così anche con il cantiere che ha avviato a Lesbos: ha messo al lavoro i suoi studenti per cercare di smontare i messaggi con cui viene raccontato dai grandi media il fenomeno delle migrazioni, «per capire in che modo si stia manipolando la situazione attuale». Un lavoro collettivo che lui guida grazie alla sua grande capacità di usare i social media: «È un movimento composto soprattutto da volontari, e fanno un lavoro straordinario soprattutto perché gran parte dei governi europei è estremamente titubante e cerca di non farsi coinvolgere. Ma oggi, con i social media, le cose sono cambiate e i volontari hanno creato un panorama ben diverso. È forse la prima volta nella storia umana che vengono coinvolti così tanti individui, e sono professionisti di ogni genere. Più che la paura dobbiamo affermare un altro sentimento, un altro modo di sentire: l'umanità».

Ai Weiwei ha anche una parola per l’Italia: «Sono tempi difficili ma il contributo dell'Italia è molto forte: questo paese è ben disposto verso i rifugiati, non li manda mai via, non li respinge, e questo approccio è molto diverso rispetto a quello di tanti altri. L'Italia mette insieme accoglienza e umanità, e questo contesto rafforza la voce della mia opera».

La mostra si intitola Libero. Un titolo che più che parlare di lui stesso, parla di un auspicio nei confronti del mondo: «Ho scelto questo titolo perché rimanda alla mia attività e al mio percorso di vita. Libero nel senso di affrancato. Sono stato definito anche un combattente da questo punto di vista. Ma non posso sentirmi libero se troppa gente nel mondo paga la mancanza di libertà».

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