Formazione

Parodi: «I compiti a casa? Possono creare più danni che benefici»

Intervista a Maurizio Parodi, dirigente scolastico e autore di un libro che da anni fa parlare di sé, "Basta compiti". «La Finlandia, al top mondiale nelle classifiche ufficiali sull'educazione, ha abolito i compiti. Noi invece siamo maglia nera e facciamo vivere nello stress gli alunni e le famiglie. Ascoltiamo i loro racconti e proviamo a cambiare i paradigmi a cui siamo abituati»

di Daniele Biella

La lettera del padre agli insegnanti che spiega perché suo figlio non ha fatto i compiti delle vacanze. Le interviste a maestri che non assegnano compiti a casa. Una scuola media che vince il premio simbolico del “Festival dei compiti assurdi” e, leggendo i contenuti, si intuisce il perché. Le ultime statistiche mondiali sull’efficacia del lavoro svolto a casa dagli studenti. Il tema – complesso – ritorna oramai a ogni inizio e fine di anno scolastico. Ne abbiamo parlato con Maurizio Parodi, 60 anni, dirigente scolastico da 30, padre di un figlio che va in prima superiore. Ha indetto il Festival sopracitato, ma soprattutto è l’autore di un libro che sta girando da anni nelle mani di migliaia di persone in tutta Italia, dal titolo inequivocabile: "Basta compiti. Non è così che si impara" Il messaggio, che Parodi spiega a fondo nelle righe qui sotto e che porta negli incontri a cui viene invitato lungo Italia, entra di petto in un tema sul quale, come spesso accade su argomenti che dividono la società, si levano gli scudi pro o contro. “Ho iniziato 15 anni fa, con un articolo su una rivista specializzata, L’Educatore, a parlare della necessità di non dare più i compiti a casa. Prima con toni blandi, poi alzando la voce, perché altrimenti non venivo ascoltato”. Ora c’è una petizione su change.org con 16mila firme, una comunità virtuale su facebook con 8.500 iscritti, una forte attenzione in materia e una necessità di affrontare l’argomento a 360 gradi. Vita.it inizia da qui.

Perché, secondo lei, non serve dare compiti a casa?
Stiamo parlando di un problema grave che ci coinvolge tutti: docenti, studenti, genitori. Lo studio domestico è inutile, perché le nozioni che sono memorizzate per l’interrogazione del giorno successivo, dopo un breve periodo di tempo vengono dimenticate, perché si attiva solo la memoria a breve termine: non c'è apprendimento; si tratta di un sapere usa e getta. Poi è discriminante, avvantaggia chi è già avvantaggiato, dalla presenza di una figura che lo segua nel pomeriggio – molti genitori lavorano entrambi e quindi sono penalizzati – o dalla maggiore capacità già acquisita: chi fa più difficoltà in classe di certo non recupera a casa, soprattutto se non può avvalersi dell'aiuto di genitori culturalmente, affettivamente o economicamente attrezzati, anzi il gap, rispetto ai compagni “più bravi” aumenta: il giorno dopo i compiti chi è svantaggiato lo è ancora di più. E spesso nemmeno i genitori più presenti e istruiti possono essere d’aiuto, è accaduto anche a me nonostante sia un dirigente scolastico.

Ci racconti…
Un esempio eclatante, mio figlio era in seconda media, e doveva studiare i complementi, mi ha chiesto un chiarimento e così ho scoperto che rispetto a quando me ne occupavo, come docente, sono proliferati a dismisura: decine e decine… Nemmeno io li conosco tutti, in quell’occasione la mia presenza è stata inutile. Di fronte a compiti difficili, incomprensibili (ma anche insensati) cresce poi l’avversione dello studente verso la scuola, soprattutto se ha già difficoltà: pensa di essere inabile allo studio, e la scuola fallisce il proprio compito educativo; come dimostrano i dati Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sull’Italia.

Come è situata l’Italia nelle classifiche internazionali sull’apprendimento?
Male. Malissimo. Il dato paradossale riguarda, appunto, i compiti: a fronte di una mole doppia, tripla e in certi casi quadrupla di compiti assegnati, rispetto ai coetanei non solo europei, il tasso di analfabetismo funzionale rimane uno dei più alti d’Europa. Si tratta dell'incapacità di usare in modo efficiente abilità elementari di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni di vita quotidiana. Sempre secondo le ricerche Ocse, eccelliamo, purtroppo, nell’abbandono scolastico e per l'incapacità di compensare le diseguaglianze (meglio di noi anche Bulgaria, Romania, Ungheria). In altre parole, la scuola italiana non funziona più come ascensore sociale, al contrario è diventata un moltiplicare di diseguaglianza, accentuandone il carattere censitario; come nella metafora di don Milani che paragonava la scuola a un ospedale al contrario: cura i sani e respinge i malati. Il timore, suffragato anche dall'aumento delle “diagnosi”, sempre più precoci, è che addirittura si corra il rischio di far ammalare i sani. Un ulteriore dato dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) evidenzia come gli studenti italiani siano tra i più stressati, i più insofferenti rispetto allo studio. Lo dimostrano comportamenti inquietanti come il terrore di ammalarsi dovendo poi recuperare i compiti non fatti, che si aggiungono ai compiti da fare al rientro.

Il ruolo dei genitori non può aiutare nell’alleviare lo stress dei figli?
Certo, ma resta l'assurdo di una situazione che impone ai genitori di “contenere il danno scolastico”, sempre che i genitori ci siano e siano in grado.
In particolare, la moltiplicazione degli insegnanti (e quindi degli insegnamenti) nella scuola primaria ha determinato effetti drammatici. Già dai primi anni di scuola, i docenti operano nella reciproca ignoranza; ciascuno assegna i compiti come se fossero i soli da svolgere (nemmeno di parlano tra loro) con il risultato di un carico complessivo soverchiante. I compiti sono talmente tanti (e comunque ogni studente ha propri ritmi) che i genitori, non solo sono costretti a sostituirsi ai docenti nel “compito” più importante, quello di insegnare un “metodo di studio”, talvolta devono sostituirsi persino ai figli: i compiti li fanno loro, perché si ritrovano alle 10, 11 di sera con bambini o ragazzi esausti e terrorizzati all'idea di andare a scuola senza averli fatti, perché scatterà la punizione, come la ricreazione saltata, o altre forme di mortificazione. Si danno i compiti persino in molte scuole a tempo pieno, a bambini di 6-11 anni, dopo 8 ore di forzata immobilità: compiti tutti i giorni e naturalmente nel week end.

La sua battaglia ha prodotto risultati tangibili?
Ho iniziato 15 anni fa, e ancora oggi porto argomentazioni logiche a sostegno delle mie tesi, come quelle appena accennate, riconducibili al decalogo della petizione online, che sfido chiunque a confutare. Ho scritto varie volte al ministro della pubblica istruzione, ma senza avere risposta.
Credo stia gradualmente maturando una diffusa consapevolezza circa la gravità del problema: oltre alle nostre proposte, al mio lavoro di sensibilizzazione, si registrano iniziative di singoli genitori, di docenti e dirigenti (anche di un sindaco sardo) e una crescente attenzione dei media.
Ma si tratta di un processo lentissimo, ed è sconfortante, tanto più se si considera un altro clamoroso dato oggettivo e ben descritto dal breve documentario che ha realizzato il regista statunitense Michael Moore. Quando si è recato in Finlandia per chiedere al ministro dell’Istruzione come sia stato possibile che la scuola finlandese sia diventata la migliore del mondo – visto che qualche decennio fa era in fondo alle classifiche come quella degli Usa – la prima risposta del ministro è stata: “Abbiamo eliminato i compiti a casa”. Le scuola migliori del mondo non danno compiti o ne danno pochissimi, noi siamo la peggiore, dopo Grecia e Portogallo. Non riusciamo a compiere una rivoluzione (di immediata fattibilità e a costo zero) a cui altri sono arrivati da tempo. Fenomeni sempre più diffusi di fuga dalla scuola, come quello dell'homeschooling, sono causati anche dal tormento insensato dei compiti a casa.

Ma non basterebbe semplicemente diminuire i compiti?
È quel che dicono quasi tutti i docenti – a parte gli iscritti al gruppo facebook: Docenti e Dirigenti a Compiti Zero – “I compiti sono necessari, ma non bisogna darne troppi”. Nessuno ha mai dimostrato che i compiti siano necessari, infatti ci sono insegnanti che non ne assegnano, gli studenti dei quali hanno percorsi scolastici assolutamente “regolari”, e, come detto, prosperano scuole di eccellenza che li hanno eliminati. Il punto è proprio questo: se sono utili, necessari, si diano; se sono inutili, addirittura dannosi si evitino: primum non nocere. Non è neppure possibile stabilire una misura, l'impegno è diverso per ogni alunno, ovvero uno può completare un argomento in mezz’ora, un altro in due ore perché magari ha maggiori difficoltà di apprendimento, altri non riuscire per nulla…

Come uscire da questo apparente vicolo cieco, in un’ottica condivisa tra docenti e famiglie ovvero senza posizioni che si fermino sono al “sì” o “no” compiti ma che entrino nel merito del problema?
Sarebbero da ripensare tutti i paradigmi su cui si basa l’apprendimento scolastico. L’unico aspetto che finora ho trovato efficace, ovvero che nel tempo ha dato i suoi frutti in termini di ragionamento pacato e condiviso, è quello di “restituire” ai docenti le testimonianze dei genitori: ci sono centinaia di casi in cui i compiti a casa sono sinonimo di sofferenza familiare, nonché motivo scatenante di gravi conflitti che si protraggono nel tempo, dove il padre o la madre diventano una sorta di carceriere e lo studente una persona che vive sotto minaccia. Leggere queste storie di vita può forse favorire la comprensione dei docenti.

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