Economia

Il welfare aziendale affronta la sfida della non autosufficienza

Si chiama Jointly Fragibilità ed è la prima rete di servizi di welfare aziendale rivolti a lavoratori caregiver, alle prese con la non autosufficienza di un famigliare. La sta costruendo Jointly, con una call aperta fino al 15 ottobre, che si rivolge in particolare al terzo settore e alle imprese sociali

di Sara De Carli

Il welfare aziendale parte per un nuovo viaggio, quello nella non autosufficienza. Grazie a Jointly Fragibilità, le aziende potranno offrire ai propri dipendenti tutti i servizi necessari per assistere un familiare non autosufficiente ma anche per orientare e sostenere il caregiver. Il primo, fondamentale passo è la costruzione della rete dei partner, per cui Jointly ha lanciato una call aperta fino al 15 ottobre. Francesca Rizzi, co-fondatrice di Jointly, illustra la call, il progetto e le sue ragioni.

Chi cercate con questa call?
Ci rivolgiamo a cooperative sociali, imprese sociali, società di capitali e associazioni che possano offrire i loro servizi nell’ambito della non autosufficienza alla rete Jointly. La nostra è un’operazione di accreditamento per costruire una rete di partner attivi su tutto il territorio nazionale, con standard di qualità certi e tariffe omogenee e accettabili sul territorio. Cerchiamo dei compagni di viaggio: la non autosufficienza sarà un tema centrale del futuro, è un viaggio che parte ora ma che si svilupperà. Per questo la qualità è fondamentale.

Cioè?
Non è un bando al massimo ribasso. L’accreditamento è fondamentale per aggregare operatori di natura diversa, con presenze e coperture territoriali diverse, affinché le aziende possano aver un interfaccia unico. Oggi la qualità c’è, ma su servizi specifici o su piccoli territori, mentre c’è bisogno di creare un sistema. Aggiungo anche che lavorare con il mondo dell’impresa sociale e delle cooperative è fondamentale: oggi è molto rara questa commistione tra grandi aziende, welfare aziendale e Terzo Settore, per la frammentazione e per i diversi linguaggi… È più facile vedere operatori di natura privata nel welfare aziendale, perché l’ufficio acquisti che sceglie la controparte usa le stesse logiche che mette in campo per una qualsiasi altra fornitura, le aziende non hanno competenze specifiche per capire qual è un buon servizio e la tariffa sotto la quale si perde la qualità. È un peccato, perché sappiamo che la gran parte delle eccellenze invece stanno nel Terzo Settore e purtroppo esse non accedono a questo mercato nascente.

Quindi voi fate anche da mediatori culturali tra i linguaggi dell’azienda e del non profit?
Noi aggreghiamo la domande e l’offerta e sì, possiamo dire che facciamo un po’ da ponte. La call ovviamente si rivolge a tutti, non è un recinto, però è una chance importante per il terzo settore, mi aspetto che in gran parte la nostra rete sarà costituita da questi soggetti. Per noi è una scelta di campo: sarebbe stato più facile rivolgersi anche noi a un singolo provider, questa strada richiede più tempo, una mediazione culturale, però noi siamo convinti che nella qualità si fa la differenza. Aggiungo anche che la call ora è finalizzata alla non autosufficienza, ma sappiamo che poi le cooperative lavorano anche su altri filoni, quindi con questi stessi contatti poi ci piacerebbe estendere i servizi offerti anche su infanzia e sostegno allo studio, ad esempio.

I tempi e i passi quali sono?
Ci sono due fasi. La prima è questa call per l’aggregazione della rete, che si chiude il 15 ottobre. Entro fine anno faremo le verifiche e chiuderemo i contratti. A quel punto, nel 2017 entreremo nella fase due, cioè saremo pronti ad erogare i servizi. Gli utenti potranno scegliere i servizi in base alle proprie esigenze, online, pagando direttamente l’operatore della rete che eroga il servizio e usufruendo dei contributi messi a disposizione dall’azienda. Per questo la copertura dell’interno territorio è importante, sia perché abbiamo grandi aziende che giustamente hanno la necessità di offrire un servizio omogeneo ai dipendenti di tutte le sedi, con la stessa qualità e tariffe, sia perché c’è chi lavora a Milano ma ha i genitori non autosufficienti a Napoli.


Da cosa si parte, in termini di servizi?
Abbiamo realizzato una ricerca su 20mila famiglie alle prese con la non autosufficienza, anche parziale, di almeno un componente; in questo modo abbiamo individuato i 10 servizi più urgenti, le priorità. Si va dalla richiesta di informazioni su servizi, agevolazioni e aiuti economici a servizi di sollievo, dalla selezione di un’assistente familiare qualificata al supporto psicologico per il caregiver. L’offerta ovviamente si potrà poi declinare sui territori con iniziative peculiari, ma questo è un ragionamento che faremo insieme ai nostri partner a livello locale. Noi crediamo in un modello di welfare aziendale che non accentui le disparità ma che migliori l’utilizzo delle risorse nel sistema, quindi ragioneremo in rete, con aziende e fornitori, anche su come aprire la partecipazione ai servizi anche per il territorio, in una logica di restituzione e generazione.

Dei servizi potranno beneficiare quindi anche persone non dipendenti delle aziende Jointly?
Sì. Il nostro obiettivo non è creare qualcosa di separato ma agire in sinergia con quanto già esiste, far sì che grazie anche alle risorse delle aziende si generi una ricaduta positiva anche su una platea di utenti più larga. Noi cerchiamo di canalizzare e indirizzare al meglio risorse che le aziende mettono a disposizione, però non faremmo un utilizzo intelligente di queste risorse se reinventassimo qualcosa che già esiste o creando un mondo che inizia e finisce con le aziende. Tra l’altro anche solo parlando di welfare aziendale dobbiamo tener ben presente che l’Italia è fatta da piccole e medie imprese, laboratori è ovvio che noi lavoriamo con una porzione piccolissima del mondo del lavoro italiano, dobbiamo fare qualcosa che si innesta su un sistema molto più ampio rispetto al nostro mondo.

Ha fatto un cenno alla richiesta di informazioni e orientamento da parte dei lavoratori caregiver…
Esatto. È una richiesta molto forte. Jointly Fragibilità sarà una rete di erogatori di servizi ma anche un centro di presa in carico, andremo nelle aziende a fare formazione e supporto, sul posto, perché tante famiglie hanno bisogno di orientarsi, sono in difficoltà, hanno bisogno di capire quale servizio è più adatto al loro familiare. C’è anche un tema di fiducia che passa dalle relazioni e dal vedersi in faccia, del portare le competenze vicino alle persone, dare la serenità che dall’altra parte c’è qualcuno di cui l’azienda si è fidata e si fa garante. Il valore del servizio è anche questo, che l’azienda ha fatto uno screening di qualità e poi si preoccupa di creare momenti in cui chiedere e ottenere risposte: è un valore aggiunto rispetto al trovarmi con voucher in mano e dover decidere da solo come utilizzarlo.

Per Jointly si tratta di un debutto nel segmento della non autosufficienza?
Abbiamo alcune iniziative a livello locale, ma i clienti che abbiamo stanno su più città, la richiesta di poter dare un servizio su tutto il territorio è stata esplicita. Abbiamo studiato per un anno, per noi è il tema del futuro. Le aziende lo sanno ma sono ancora scoperte su questo segmento di offerta. Sanno che dovranno dirottarvi delle risorse, ma si chiedono come fare perché non sia solo un versare una goccia nell’oceano, come supportare davvero, come creare qualcosa che non sia insufficiente, insomma, come spendere bene i soldi. Le aziende oggi fanno due cose: la somministrazione di badanti per le emergenze o per tempi limitati oppure convenzioni con casa di cura. La badante però come supporto è economicamente inefficiente perché ha un rapporto uno a uno: spesso non è nemmeno necessaria, basta un intervento domiciliare una volta al giorno, un terapista, un servizio diurno… però è più semplice avere un interlocutore unico che viene a casa. D’altra parte le RSA sono l’ultimo stadio a cui arrivare. Il problema è intervenire prima, con forme graduali, limitandosi a quello che è necessario in quel momento. È il lavoro dell’assistente sociale, indirizzare la persona alla miglior opzione, quanti arrivano all’assistente sociale?

Diceva che le aziende sono consapevoli del fatto che la non autosufficienza è il tema del futuro. Perché?
Incontriamo ogni giorno welfare manager e responsabili del personale, riflessioni e aneddoti non si contano. L’età media di chi lavora in azienda sta aumentando, oggi i dipendenti hanno in media 48 anni, è chiaro che è un’età in cui mi preoccupo meno dell’asilo nido e più dei miei genitori anziani. Le statistiche dicono che il 17% della popolazione aziendale usufruisce di permessi per la legge 104, con 8-10 giorni di assenza l’anno. I dipendenti caregiver sono il 12% nelle aziende con lavoratori giovani e il 25% nelle aziende con dipendenti attorno ai 45 anni: numeri elevati. Spesso non è un genitore ma uno zio o un nonno, un figlio, un marito, le casistiche sono diversissime. I welfare manager raccontano di persone costrette a prendere permessi solo per capire come orientarsi, con la sensazione di solitudine che porta a casi molto difficili da gestire con gli strumenti delle risorse umane: loro d’altra parte hanno poche leve – orari flessibili e permessi – faticano a dire come aiutare. Il dato di fatto è che già oggi il 25% dei lavoratori caregiver – spesso la donna – lascia lavoro. Impatta molto più della nascita del figlio, perché il figlio necessita di assistenza per un tempo limitato, la non autosufficienza invece è senza scadenza.

Si parla molto di flexible benefits…
Il nostro approccio è diverso e ci tengo molto a sottolineare questa diversità. Con i flexible benefits si dà budget uguale a tutti, ripartendo le risorse allo stesso modo fra chi ha bisogno e chi no. Noi interveniamo con un servizio là dove c’è un bisogno: magari il bisogno riguarda solo il 2% dei dipendenti. Il nostro approccio non è quello di distribuire una torta a tutti, facendone fette uguali per tutti in fette ma di andare a supporto di chi ha bisogno. I flexible benefits sono solo uno dei tanti modi di approcciare il welfare, non l'unico. Il nostro approccio è diverso, anche da un punto di vista etico: noi canalizziamo le risorse nella costruzione di una struttura di servizi per chi ha bisogno quando ne ha bisogno. Se poi essa si potrà alimentare anche con i premi bene, ma come elemento aggiuntivo.

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