Mondo

Apac: il carcere senza chiavi da cui nessuno fugge

Presentata al Meeting di Rimini l'esperienza degli istituti di pena più rivoluzionari del mondo: strutture senza sbarre né guardie carcerarie, in cui gli stessi internati (chiamati recuperandi) gestiscono la vita comune. In oltre 40 anni di vita, non c'è stata una sola rivolta, nessun caso di corruzione e la recidiva di chi esce è crollata dall'85 al 15%. E se sbarcassero anche in Italia?

di Gabriella Meroni

«Sono libero! Sono libero!!!»: la voce arriva a Rimini, nei padiglioni del Meeting, direttamente dal Brasile sul cellulare di Valeci Antonio Ferreira. Lui sorride, poi taglia corto: «Sono in Italia, dimmi in fretta…», e dall’altra parte ricominciano le urla di gioia di chi è appena uscito dal carcere e desidera gridarlo al mondo intero. Ferreira è qui per parlare delle Apac-Associazione di protezione e assistenza ai condannati, i centri di recupero per detenuti brasiliani “inventati” nel 1972 da un avvocato visionario, Mario Ottoboni, e diventati oggi 147 in tutto il paese per una popolazione di 3500 “ospiti”.

Oasi di speranza per chi l’aveva persa, in un paese che conta 600mila detenuti e un tasso di recidiva tra i più alti al mondo, che sfiora l’85%, venti punti in più della media mondiale. Un sistema fatto di condizioni di detenzione inimmaginabili, violenze e continue rivolte, che secondo Valeci «toglie la luce dagli occhi dei detenuti, rendendoli spenti, vuoti», ma che da quarant’anni sta sperimentando con successo le carceri senza sbarre e senza guardie, senza armi né corruzione, le Apac appunto, che stravolgono il concetto stesso di prigione: si basano infatti sul riconoscimento di aver commesso un errore e sulla decisione di cambiare.

«Le Apac non sono solo un modello di recupero dei detenuti, ma anche un’alternativa reale di espiazione della pena», spiega Fabrizio Pellicelli di Avsi, la ong italiana partner del progetto in Brasile, «non ci sono né guardie né agenti penitenziari, i “recuperandi” hanno le chiavi della prigione e spesso sui muri si legge “l’uomo non è il suo errore”. Tutto si basa sull’autodisciplina, sulla fiducia e sul rispetto». «La gente pensa che l’unico carcerato buono sia un carcerato morto, e che chi ha sbagliato debba soffrire il più possibile», aggiunge Ferreira, «mentre le Apac nascono da un concetto opposto: che nessuno è irrecuperabile, e che l’amore può recuperare tutti».

Amore e detenzione: due apparenti opposti, che però possono incontrarsi in queste piccole strutture – più simili a comunità che a prigioni – dove si studia e si lavora, ci si aiuta vicendevolmente, e si svolgono perfino ritiri spirituali. «La recidiva di chi esce da un Apac è inferiore al 15%», continua Valeci, che è qui in Italia ospite del Meeting per presentare il proprio lavoro ma anche tessere contatti utili all’esportazione del modello. Un tentativo possibile? «La cosa più difficile è convincere le autorità», ammette, «ma i risultati parlano per noi. Nessuna rivolta in 44 anni, nessun caso di corruzione o spaccio di droga, tentativi di fuga che si contano sulle dita di una mano. Perché – come recita il titolo della mostra dedicata alle Apac qui al Meeting – «dall’amore nessuno fugge».

Per la prima volta in un Apac ho cominciato a pensare alla mia vita non come a una serie di fallimenti senza possibilità di recupero. E ho anche potuto perdonare mio padre

Daniel Luiz da Silva

È il caso di Daniel Luis Da Silva, 32 anni, una vita segnata dall’odio per l’abbandono del padre, che lascia moglie e sei figli piccoli, consegnandoli di fatto a povertà ed emarginazione. Lui, il più fiero dei sei, a dodici anni è già un piccolo boss («la criminalità è stata l’unica mano tesa che mi ha accolto»), e a sedici entra in una delle tante bande criminali che si sfidano nelle strade della sua città, seminando il terrore e rapinando banche e negozi, finché per una serie di vendette incrociate, per punizione gli uccidono il fratello maggiore, scatenando in lui una violenza inimmaginabile che gli procura una condanna a 37 anni di carcere. «In prigione ho vissuto l’inferno sulla terra», ricorda oggi, «arrivando fino al punto di supplicare le guardie di uccidermi, pur di non continuare a vivere in quel modo». Finché un giorno, dopo aver incontrato Valeci Antonio Ferreira, intravede anche per sé una possibilità di cambiamento, e si mette a studiare in quell’inferno.

«Il giudice si accorse del mio cambiamento e mi permise di andare in un Apac», è la conclusione della storia, «dove per la prima volta ho ripensato alla mia storia non come una serie di fallimenti senza possibilità di ritorno. E ho capito, piano piano, che potevo anche perdonare mio padre per tutto il male che mi aveva fatto». E dopo averlo incontrato e perdonato, Daniel è un uomo nuovo, pronto per uscire dal carcere (anche grazie alla caduta di alcune accuse) e girare il mondo a raccontare la sua esperienza. Convincerà anche le istituzioni italiane? «È presto per dirlo», conclude Valeci, «ma noi teniamo a sottolineare che il nostro progetto, profondamente brasiliano, non è di nostra proprietà e ha già ispirato la riforma radicale se non di interi istituti penitenziari, almeno di alcuni reparti di essi, anche in Europa».

E in Italia, anzi proprio a Rimini, in questi giorni i responsabili di Apac hanno incontrato quelli dell’associazione papa Giovanni XXIII, con cui «c’è stata molta sintonia». Una strada percorribile sarebbe quella di aprire anche da noi comunità simili alle Apac, con il coinvolgimento del terzo settore, promuovendo la realizzazione delle pene alternative. «È la strada che abbiamo percorso in Brasile», conclude Valeci Antonio Ferreira. «Piccoli passi, grandi risultati. Se dare le chiavi delle celle ai detenuti poteva sembrare una follia assoluta, vedere che invece la cosa funzionava ha convinto anche i più scettici. Mi auguro che possa succedere lo stesso anche in Italia».

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