Comitato editoriale

Smart Health: così l’Italia cambia gli scenari della riabilitazione

Internet of Things, robotica, teleriabilitazione: alla sfida della cronicità si può rispondere solo con soluzioni "disruptive". Grazie alle tecnologie si possono realizzare soluzioni che coniughino misurabilità, efficacia e sostenibilità economica. La Fondazione Don Gnocchi ha tre grossi progetti in campo, che presenterà domani alla Disruptive Week di Milano

di Sara De Carli

Sono più che innovatori, più che makers, più che startupper. Milano fino al 13 maggio 2016, sarà la capitale dei “disruptive”, ovvero di quanti hanno idee e prodotti dirompenti, che utilizzano le nuove tecnologie ma che non parlano di nuove tecnologie quanto di nuovi modelli di business, nuovi scenari, nuovi paradigmi. Andarci è come fare un “Internet og Things Valley Tour”. Robot, droni, realtà aumentata, internet of things, tecnologie indossabili: c’è tutto questo alla seconda edizione della Disruptive Week, declinato nell’industria, nell’abitare, nella sicurezza, nell’energia e anche nella salute. Fondazione Don Gnocchi ne è tra i promotori e i protagonisti: domani, nell'ambito della sezione "Smart Health", la Fondazione insieme ad altre grandi aziende illustreranno come la tecnologia ha cambiato e sta migliorando il modo di risolvere i bisogni assistenziali permanenti della popolazione (mercoledì 11 maggio, ore 14.30, presso il Centro Guida Sicura Aci-Sara di Lainate, qui il programma). Furio Gramatica, head of Health Tecnology Assessment della Don Gnocchi sarà il chairman dell'evento, a cui interverranno anche gli ingegneri Paolo Meriggi, Marco Germanotta e Valerio Gower.

Gramatica, che ci fa Fondazione Don Gnocchi alla Disruptive Week?
C’eravamo anche l’anno scorso, alla prima edizione: a noi piace il tema. Non è snobismo nerd, è che la realtà ci dice che con questo trend di cronicizzazione delle malattie, per mantenere la sostenibilità dei sistemi sanitari di tutto il mondo, non solo di quelli europei, sono necessarie soluzioni disruptive.

E cosa caratterizza una soluzione disruptive?
Devono esserci due presupposti, il primo è il poter misurare. Oggi tutti parlano di medicina personalizzata o di precisione, ad esempio sul cancro significa che ti profilo e ti costruisco una cura su misura. Ma quando ci muoviamo nel campo delle malattie neurodegenerative, croniche o di lunga durata, le persone diventano dei moving target e diventa molto più difficile inseguirle. Il paziente vive tanti anni, cambia e se la persona cambia, anche le cure devono inseguirla: per farlo occorre misurare continuamente, misurare la persona e la sua risposta ai trattamenti.

Disruptive Innovation: take the chance or die. Whole sectors of economy vanished or completely shook up due to digital innovation: a real revolution that kills whoever is not able to face this new challenge, this new era. We designed a Week of coordinated international and domestic events dedicated to emerging technologies to better understand how this digital revolution is shaping our businesses and everyday life.

dalla presentazione della Disruptive Week

E come si fa?
In riabilitazione e cronicità tradizionalmente non lo si faceva. Il riabilitatore osservava, partendo da alcune scale funzionali. Queste scale vanno bene, anche perché la disabilità secondo l’ICF è il mismatch tra la funzione residua e quanto ci chiede ambiente, però bisogna andare oltre. Misurare significa aiutare il terapista e il paziente a “tagliare” il trattamento sul singolo paziente.

La seconda condizione perché una soluzione sia disruptive qual è?
La sostenibilità, perché personalizzare significa che – almeno all’inizio – costare di più. Se queste sono le premesse, la tecnologia è il mezzo migliore per disegnare soluzioni disruptive: misura intrinsecamente – per profilare ci sono un sacco di tecnologie già esistenti – e costa meno delle persone. Questo significa che puoi permetterti di concentrare le risorse importanti, ovvero le persone, sul core dell’azione e altri aspetti affidarli alle tecnologie: il terapista non è superato dalla tecnologia, questo voglio che sia chiaro, anzi il terapista diventa quasi un supereroe perché è messo nelle condizioni di fare cose che non poteva fare prima…

Che esperienze porterete come Don Gnocchi? Cosa c’è concretamente dentro l’universo “smart health”?
Innanzitutto il CareLab – Computer Assisted REhabilitation Lab – l'innovativo progetto mezzo a punto dalla Fondazione Don Gnocchi al Centro Irccs "S. Maria Nascente" di Milano per la riabilitazione dei bambini con problemi neuromotori attraverso il gioco, grazie alle più moderne tecnologie e all’utilizzo della realtà virtuale (ne abbiamo parlato qui). È un progetto che ha tre fasi. La prima è un laboratorio/ambulatorio di eccellenza all’interno del nostro IRCCS: i bambini credono di giocare mentre in realtà stanno facendo un trattamento, sono molto più motivati. Il terapista può misurare tutto ma anche adattare i giochi alle esigenze del bambino. La seconda fase sarà creare un altro CareLab, probabilmente lo faremo a Firenze e in prospettiva altri: i dati saranno tutti in cloud e avere così tanti dati consentirà sia di fare un consulto tra terapisti sia di creare programmi sempre più “nostri”. La terza fase è portare il CareLab a casa dei bambini, che continueranno a fare i giochi nella loro cameretta e trasmetteranno i risultati al Centro, in un’ottica di continuità assistenziale. Questa per noi è la chiave del futuro.

Con questo trend di cronicizzazione delle malattie, per mantenere la sostenibilità dei nostri sistemi sanitari sono necessarie soluzioni disruptive.

Furio Gramatica

Si parla tanto di robot, avranno un ruolo nella smart health?
Noi negli ultimi due anni abbiamo robotizzato 7 Centri: abbiamo messo 4 robot in una palestra per ogni Centro, robot che hanno 4 funzioni diverse, che danno al paziente un task motorio o motorio cognitivo (es lavare i piatti, fare andare la macchinina…) per avere un coinvolgimento maggiore. Abbiamo già ordinato anche un robot per gli arti inferiori, dall’anno prossimo sarà in uso. Li scegliamo con questo specifica attenzione: devono amplificare la volontà del paziente e la capacità del terapista, non devono sostituirsi a nessuno dei due. Vogliamo dare un occhio elettronico al terapista e amplificare la volontà del paziente, che in riabilitazione è fondamentale. I robot consentono di aumentare l’intenzionalità, di misurare l’intervento, di personalizzarlo e di renderlo più sostenibile: un terapista in presenza riesce a seguire due pazienti, peraltro aumentando la qualità dell’intervento.

In questo caso la “banca dati” che si crea che significato ha?
Don Gnocchi ha 29 centri e 3,5 milioni di pazienti l’anno. Una banca dati riabilitativi – immaginiamo anche solo con i dati di trattamento di 350mila/500mila pazienti all’anno – è preziosissima: ci dice la situazione paziente ingresso, durante il trattamento, l’outcome e la situazione in uscita, per un anno, è una cosa preziosissima perché l’anno successivo hai un valore predittivo enorme, che aiuta a trattare in modo efficace. Ed è più efficiente: la cronicità costa proprio perché ogni volta provi, daccapo…

L’Internet of Things crea già opportunità concrete anche nei processi di deospedalizzazione?
Sì. La teleriabilitazione è l’altro nostro grosso progetto. Normalmente la continuità assistenziale nella riabilitazione si fa mandando un terapista a casa del paziente, il che limita il numero pazienti che si possono trattare perché è un processo costoso. In Italia i territori non sono semplici a volte, così per 1 ora di trattamento il terapista resta impegnato per tre ore… Con alcune Regioni stiamo pensando modelli per affiancare ai trattamenti domiciliari anche alcuni trattamenti in telepresenza: significa presenza audio/video del terapista, il paziente vede il terapista nella sua tv, si parlano, il paziente svolge i suoi esercizi come se il terapista fosse lì, solo che il terapista sta al centro e contemporaneamente vede il paziente, i suoi dati analitici e alcuni parametri vitali, che rileveremo con qualche sensore. Questo progetto è in fase ancora inziale, c’è una prima fase sperimentale qui al S. Maria Nascente di Milano organizzata con una postazione per il terapista, una postazione paziente nella casa domotica, una al Palazzolo e una a Torino. In questo momento stiamo coinvolgendo pazienti ricoverati, se va bene dopo l’estate inizieremo una sperimentazione a domicilio dei pazienti, probabilmente in Piemonte, con 20/30 pazienti prototipali, e poi lo reimporteremo in Lombardia dove Don Gnocchi ha 3mila pazienti in trattamento domiciliare. Immagini cosa vuol dire in termini di qualità della vita.

Come siamo messi in Italia rispetto al resto d’Europa?
Tutto questo ha un risvolto internazionale, ovviamente, perché la cronicità è un problema che vale per tutti i Paesi. Siamo parte di una task force che da sei mesi sta costruendo una possibile iniziativa europea, noi come Don Gnocchi lì dentro rappresentiamo i bisogni degli utenti. L’idea è di avviare un’iniziativa europea per fare dell’Europa il posto ideale per lo sviluppo di dispositivi medicali, dal momento che la cronicità è un punto scoperto, l’industria fino ad oggi ha lavorato di più sulle acuzie. L’iniziativa si chiama ESTHER – Emerging and Strategic Technologies for Healthcare, i promotori sono la stesa Commissione Europea e Medtech Europe, un’alleanza delle associazioni delle industrie delle tecnologie medicali europee, il commissario Carlos Moedas ha spinto molto, siamo una piccola task force mista per provare a scrivere la Stratgic Innovation Agenda di questa iniziativa.

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