Mondo
Armi, l’Italia triplica la vendita
La relazione annuale del Governo sull’export militare italiano 2015 mostra un aumento del 200% per le autorizzazioni all’esportazione di armamenti il cui valore complessivo è salito a 8,2 miliardi dai 2,9 del 2014. Boom verso Paesi in guerra, in violazione, attraverso vari escamotage, della legge 185/1990
L'esportazione di armi italiane nel mondo segna un incremento del 200% rispetto al 2014. L'anno scorso, infatti, il valore globale delle licenze di esportazione definitiva ha raggiunto gli 8.247.087.068 euro rispetto ai 2.884.007.752 del 2014. Un boom senza precedenti, che il ministero degli esteri e della cooperazione (Maeci) commentano dicendo che: «…Si è pertanto consolidata la ripresa del settore Difesa a livello internazionale, già iniziata nel 2014 e in linea con l'andamento crescente globale del settore difesa nel 2015».
I dati sono contenuti nella “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell'esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” riferita all'anno 2015 inviata alle Camere lo scorso 18 aprile per conto del governo Renzi, dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti. Il documento in due volumi è disponibile sul sito del Senato e scaricabile in allegato.
Come si legge nella relazione, «i settori più rappresentativi dell’attività d’esportazione sono stati l’aeronautica, l’elicotteristica, l’elettronica per la difesa (avionica, radar, comunicazioni, apparati di guerra elettronica), la cantieristica navale ed i sistemi d’arma (missili, artiglierie), che hanno visto, nell’ordine: Alenia Aermacchi, Agusta Westland, GE AVIO, Selex ES, Elettronica, Oto Melara, Intermarine, Piaggio Aero Industries, MBDA Italia e Industrie Bitossi ai primi dieci posti per valore contrattuale delle operazioni autorizzate. La maggior parte di queste aziende sono di proprietà o in varia misura partecipate dal Gruppo Finmeccanica».
Ma come scrive Giorgio Beretta, su Unimondo.org, «Esportare materiali bellici fa bene all’economia italiana; la trasparenza invece può nuocere».
I motivi di questo duro incipit al commento della relazione sono moltecipli. Come aveva anche sottolineato Nigrizia con un eloquente articolo dal titolo “Banche Armate”. Scrive Gianni Ballarini su Nigrizia.it « Documento che certifica come il mondo bancario italiano, scansando ogni freno etico (se mai l’ha avuto), torni a offrire con generosità i suoi servizi e conti correnti ai clienti che vendono armamenti all’estero». A poi nel particolare: « Una “banca armata” – il Banco Popolare – cresciuta del 30.000% in un anno. Oltre 4 miliardi di euro (un incremento del 57,2% rispetto al 2014) il valore delle transazioni accreditate sui conti correnti delle banche con sede in Italia. Unicredit e Intesa-San Paolo, sempre più munifiche, riconquistano i vertici di questa, un tempo poco ambita, classifica. Emirati arabi uniti e Algeria contendono a Germania e Regno Unito il primato di paesi pagatori. Il Medioriente si conferma l’area principale di destinazione delle armi italiane».
L’altro tasto dolente riguarda i paesi cui queste armi vengono vendute, che certifica nero su bianco come sia routine il commercio verso Paesi in guerra, in violazione, attraverso escamotage, della legge 185/1990 che vieta l’esportazione e il transito di armamenti verso Paesi in stato di conflitto e responsabili di gravi violazioni dei diritti umani.
Il valore dell’export di armi ‘made in Italy’ verso l’Arabia Saudita autorizzato nel 2015 è salito a 257 milioni dai 163 milioni del 2014. Un aumento del 58%. Anche le forniture belliche italiane verso gli altri paesi che partecipano alla guerra in Yemen a fianco dei sauditi sono proseguite o aumentate: gli Emirati si confermano il principale cliente mediorientale (con 304 milioni come l’anno prima), mentre c’è stato un forte incremento di vendite al Bahrein (da 24 a 54 milioni) e soprattutto al Qatar (da 1,6 a 35 milioni). Il Kuwait, nel 2015 ancora tra i clienti minori, è destinato a scalare la classifica dopo la firma, poche settimane fa, di un contratto multimiliardario per la fornitura di 28 cacciabombardieri prodotti da Finmeccanica.
Ma è boom di export verso tutti i Paesi in guerra, a cominciare da un clamorosa new-entry: l’Iraq, finora mai comparso tra i clienti italiani, esordisce nel 2015 con vendite per 14 milioni. Impennata di vendite verso la Turchia (da 53 a 129 milioni) che bombarda i curdi fuori e dentro i suoi confini con gli elicotteri T129 costruiti su licenza Finmeccanica; verso la Russia (da 4 a 25 milioni) che continua a ricevere blindati Lince della Fiat-Iveco nonostante l’embargo post-Ucraina, verso il Pakistan (da 16 a 120 milioni) in perenne conflitto con talebani, indipendentisti baluci e con l’India (anch’essa con forniture belliche italiane in aumento da 57 a 85 nonostante la crisi dei marò e la guerra contro la ribellione contadina naxalita). Nota a margine: nel 2015 sono incrementate le vendite all’Egitto pre-caso Regeni (da 32 a 37 milioni), comprese le armi leggere e i lacrimogeni usati dalla polizia del Cairo nelle repressioni di piazza.
Quello su cui tutti gli esperti però concordano è l’assoluta mancanza di trasparenza della relazione. Anzi per Beretta addirittura «mentre fino a qualche anno fa, incrociando le numerose tabelle fornite dai vari ministeri, era in qualche modo possibile ricostruire alcune delle operazioni autorizzate e svolte, oggi è praticamente impossibile. Tutto questo non solo rende gran parte della Relazione un mero esercizio burocratico e di facciata, ma soprattutto mina alla radice il controllo parlamentare e della società civile».
«Il fatto “curioso”», conclude Beretta, «è che di questa mancanza di trasparenza stanno approfittando, oltre che alle aziende del gruppo Finmeccanica (ora “Leonardo”) soprattutto le banche estere. E tra queste in modo particolare quelle banche, come Deutsche Bank e BNP Paribas, che non hanno mai emanato delle direttive per il controllo delle operazioni finanziarie sugli armamenti convenzionali e sulle armi leggere».
E infatti al vertice della classifica troviamo la tedesca Deutsche bank, con oltre un miliardo di euro fatti transitare sui propri conti. Un incremento, rispetto al dato del 2014, del 37,5. Al secondo posto si piazza il Crédit agricole corporate and investment bank con quasi 591 milioni di euro.
La tam tam mediatico è subito entrato anche nell'agone politico. «Se venissero confermati i dati diffusi da alcuni siti di informazione ci troveremmo davanti ad una fotografia sconcertante del nostro Paese», ha scritto sulla sua pagina Facebook il capogruppo M5S in Commissione Esteri del Senato Stefano Lucidi.
«Si tratta di un corposo documento redatto dai principali ministeri coinvolti in queste trattative cioè Esteri, Sviluppo Economico, Finanze e ovviamente Difesa», continua il post, «Una relazione al Parlamento che non è mai stata letta o discussa nei suoi aggiornamenti a partire dalla sua istituzione nel 1990. Soltanto con il sollecito del M5S lo scorso anno è iniziato il dibattito su queste tabelle che compongono la quota di PIL italiano attribuibile alla vendita di armi. Per la prima volta, mesi fa, abbiamo consegnato una relazione di minoranza in commissione Affari Esteri per la parte del 2014 che era stata congelata in attesa della nuova relazione sui dati 2015. Inizieremo quindi nei prossimi i giorni l'analisi di questo aggiornamento cercando di fare luce su uno degli aspetti più controversi del governo Renzi».
«Ad una prima lettura emerge un raddoppio del 200% sulle autorizzazioni all’esportazione di armamenti il cui valore complessivo è salito a 7,9 miliardi dai 2,6 del 2014», conclude Lucidi, «La vendita a Paesi in guerra o comunque legati ad attività belliche o sospettati di finanziare il terrorismo, e un aumento delle transazioni finanziarie. Se questa prima analisi venisse confermata chiederemo al governo di fare luce su ogni singola voce della relazione».
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.