Mondo

Sudan: “Il sistema educativo, una fabbrica del radicalismo islamico”

“Tutti a parlare di social media, ma in Sudan i danni più grandi il jihadismo lo ha fatto nelle scuole”. Parola di Ali Haj-Warraq, uno dei più grandi intelletuale sudanese oggi in esilio al Cairo. Vita.it ripropone i brani principali di un’intervista che Haj-Warraq ci aveva concesso a Roma in occasione di un incontro organizzato dal Partito democratico su “Salafismo, Islam politico e radicalizzazione”.

di Joshua Massarenti

Quanto la radicalizzazione islamica ha colpito un paese come il Sudan?

E’ giusto che si parli molto dei social media come strumento di reclutamento tra i più efficaci utilizzati dai gruppi terroristi islamici per rafforzarsi, ma è altrettanto cruciale concentrare la nostra attenzione sull’educazione, è lì che il jihadismo fa i danni più grandi. In Sudan sono stati devastanti, anche grazie alla complicità del governo sudanese. Negli anni ’90 il ministero dell’educazione invitava i musulmani a spiare i non musulmani nelle scuole elementari. E sempre in queste scuole, si insegnavano ai ragazzi a rispettare la legge dello Stato, secondo la quale chi non pregava sarebbe andato in inferno e chi si convertiva ad un’altra religione rischiava la pena di morte. Il processo di islamizzazione del mondo scolastico, iniziato con l’arrivo del Presidente Omar al-Bashir al potere nel 1989, si fa sentire ancora oggi. Non solo nelle scuole, ma anche nelle famiglie, compresa la mia che è sempre stata aperta al dialogo interreligioso e al multiculturalismo. Durante la partita Argentina-Iran che si è giocata ai Mondiali di calcio del Brasile nel 2014, mia figlia si chiedeva come potessi tifare per gli argentini, una squadra di non musulmani.

Che spazi politici e culturali rimangono per pensatori liberali come lei?

Nessuno, o quasi. In Sudan la democrazia e la libertà di espressione sono totalmente soffocate. Urge un appoggio molto forte da parte dell’Italia e dei paesi occidentali nei confronti di chi crede nei valori democratici e nel pensiero liberale. Siamo troppo deboli, abbiamo bisogno di aiuto.

Per anni Teheran ha voluto fare del Sudan un cavallo di Troia per accrescere la sua influenza sul continente africano.

Bashir e il suo entourage usano gli estremisti islamici per penetrare i loro ambienti e rafforzarli con l’obiettivo di convincere all’Occidente che non c’è alternativa al regime attuale.

Qual’è oggi la strategia del regime sudanese nei confronti del terrorismo islamico?

Bashir e il suo entourage usano gli estremisti islamici per penetrare i loro ambienti e rafforzarli con l’obiettivo di convincere all’Occidente che non c’è alternativa al regime attuale. E’ anche un modo per Bashir di raccogliere informazioni da vendere agli occidentali nel quadro della lotta contro il terrorismo, in cambio della garanzia che il presidente sudanese e i suoi uomini più fedeli non verranno toccati. Infine, l’uso strumentale dei terroristi offre a Bashir l’occasione di incutere il terrore tra i leader democratici sudanesi. Ma il regime di Khartum è andato troppo lontano: non sarà facile cambiare strategia e mollare i terroristi, che sono stati infiltrati a tutti i livelli, al punto da creare dei dissensi nel partito presidenziale. Esistono poi risvolti sosprendenti in tutta questa storia. Tra i 18 studenti dell’Accademia di Scienze e Medicina di Khartum partiti in Siria nel 2015 per raggiungere Daesch, c’era la figlia del portavoce del ministro degli Affari Esteri, Ali El Sadig.

Al di là delle sue frontiere, il regime sudanese è noto per aver sostenuto gruppi come Hamas attraverso l’invio di razzi via il Sinai, e più di recente via la Libia e il Mar Mediterraneo. Nel 2014, un report di Small Arms Survey ha rivelato che il Sudan è una parte di armi leggere e munizioni prodotte da aziende sudanesi sono finite nelle mani di vari gruppi armati come Seleka in Repubblica centrafricana, i ribelli del Sud Sudan, e movimenti terroristici come Boko Haram in Nigeria.

Articolo realizzato nell'ambito di un progetto editoriale co-finanziato dalla Direzione Generale Mondializzazione e Questioni Globali (DGMO) del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) che associa Vita/Afronline a 25 media indipendenti africani.

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.