Economia

B-corp, Società benefit e imprese sociali: cosa le separa e cosa le unisce

Le premesse perché le società benefit non rimangano l’ennesima etichetta ci sono tutte, ora non resta che attendere che tutte le società italiane atterrino sul “pianeta B”. L'intervento di Roberto Randazzo, avvocato esperto in diritto degli enti non profit

di Roberto Randazzo

Il convegno sulle società benefit organizzato dalla Fondazione ENI Enrico Mattei in collaborazione con AICCON (di cui Vita ha già dato notizia) ha ospitato un interessante e articolato dibattito che ha permesso di conoscere più da vicino e con un approccio molto pratico la più recente novità introdotta all’interno del nostro ordinamento, le società benefit. L’occasione si presta ad una breve nota riguardo alle possibili sovrapposizioni con l’impresa sociale, aspetto che sembra generare confusione anche fra gli stessi commentatori della norma e che in questi mesi si è avuto modo di leggere, qua e là, a volte come mera analisi della disciplina, altre volte in chiave critica accomunando, per i più disparati effetti strumentali, questi due mondi.

Occorre fare, preliminarmente, una precisazione terminologica in quanto l’universo “B” prevede due categorie diverse ovvero la “B Corp” – certificazione che può essere ottenuta da qualsiasi impresa privata nel mondo – e la Benefit Corporation, ovvero una vera e propria forma giuridica introdotta per la prima volta negli Stati Uniti e da qualche mese anche in Italia con la denominazione società benefit.


Un po’ come è accaduto (e accade) per l’impact investing, bisogna provare ad immaginare e dare concretezza a modi di operare, di fare impresa, di investire il denaro che puntano ad approcci e definizioni di carattere transanzionale, globale.

Partiamo con una certezza: le società benefit e le B Corp non sono imprese sociali (ex lege, of course). Senza entrare nel merito dei singoli passaggi della norma, è sufficiente citarne il primo articolo ove si precisa che la legge ha quale fine quello di “promuovere la costituzione e favorire la diffusione di societa', di seguito denominate «societa' benefit», che nell'esercizio di una attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalita' di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse” .

Quindi esercizio di attività economica, divisione degli utili, beneficio comune, nulla di più. La società benefit non sembra, quindi, poter essere un’impresa sociale ex lege (considerato il divieto assoluto di distribuzione degli utili imposto dalla norma), mentre nulla esclude che un’impresa sociale possa diventare B Corp.

Contrariamente a quanto sostenuto da qualche commentatore, si esce dalla rigida (e sicuramente superata) bipartizione tra profit e non profit per entrare in una dimensione in cui l’aspetto rilevante è l’impatto, o meglio il beneficio, che si riesce a generare per gli stakeholder citati dalla norma. Ancora una volta, ci ritroviamo a commentare approcci innovativi all’impresa e al mercato che non sono costruiti secondo i punti cardinali che in Italia conosciamo da decenni.

Un po’ come è accaduto (e accade) per l’impact investing, bisogna provare ad immaginare e dare concretezza a modi di operare, di fare impresa, di investire il denaro che puntano ad approcci e definizioni di carattere transanzionale, globale. Per forza di cose questi modelli non possono entrare nelle forme che noi conosciamo e per forza di cose si deve ragionare di processi che si plasmano nel corso del tempo, con l’esperienza e con l’applicazione pratica, con l’evoluzione della prassi.

Questo sembra essere un modello poco comprensibile e di difficile metabolizzazione in Italia. Bisognerebbe però guardare oltre le Alpi non per scimmiottare ed imitare, ma per capire se davvero questi modelli possono contaminare le nostre esperienze e, anzi, se possiamo dare valori aggiunti che sono propriamente nostri. Di certo, quella è la direzione in cui si muovono questi ambiti dell’economia globale, bisogna soltanto decidere se volerne far parte o meno, magari provando ad influenzarli e, nel frattempo assicurando la libertà a chi li vuole applicare, di farlo in scioltezza.

Nel corso del convegno è emerso come in Italia sono già 5 le società che hanno deciso di assumere tale qualifica, apportando le necessarie modifiche al proprio oggetto sociale – al fine di adeguarlo al dettato normativo – ed indicando le finalità specifiche di beneficio comune che intendono perseguire.

Fra queste c’è anche D Orbit – una società che sviluppa e commercializza tecnologia per la rimozione dei “detriti spaziali” – che, come ha avuto modo di illustrare l’amministratore delegato Luca Rossettini, ha sempre avuto nel proprio DNA lo sviluppo di un business sostenibile, a 360 gradi. La stessa idea tecnologica alla base dei loro prodotti, infatti, è stata sviluppata attraverso il cosiddetto “algoritmo della sostenibilità”, improntato sulla valutazione dei risultati e dei benefici a breve termine e sulla possibilità di continuare a riadattare e migliorare la propria tecnologia nel tempo.

Quando Rossettini ha scoperto l’esistenza della certificazione B Corp ha dovuto quindi semplicemente far indossare a D Orbit un vestito che, di fatto già possedeva. Superato l’assessment e ottenuta la certificazione, oltre alla soddisfazione personale è arrivata anche la risposta degli investitori che hanno sposato tale scelta, ritenendola uno strumento non solo in grado di abbattere i rischi sull’investimento ma, addirittura, di favorirlo e consolidarlo. Il cerchio per D Orbit si è , poi, chiuso nei giorni scorsi con la decisione di diventare una società benefit.

Insomma, le premesse perché le società benefit non rimangano l’ennesima etichetta ci sono tutte, ora non resta che attendere che tutte le società italiane atterrino sul “pianeta B”.

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