Famiglia

Giotto conquista la Francia

La cooperativa del carcere padovano si conquista un lungo reportage su uno dei settimanali parigini più popolari, Paris Match. Per dimostrare che con questi modelli l’Italia è più avanti di tutti

di Anna Spena

È opinione diffusa che la cucina francese sia “la migliore al mondo”. È lì che hanno studiato gli chef stellati che oggi riempiono i migliori ristoranti italiani. Ma c’è un luogo, un laboratorio culinario speciale che la Francia ci invidia. È la pasticceria Giotto. E a renderla “diversa” è il luogo dov’è stata creata. Diversa e anche speciale tanto che il settimanale francese Paris Match le ha dedicato un servizio lungo quattro pagine in uno dei suoi ultimi numeri (11 febbraio). La pasticceria, infatti, è nata all’interno del carcere di Padova, uno dei dieci più grandi d’Italia dove sono detenute circa 600 persone. Emanuelle Jary, giornalista che ha realizzato il servizio, ha descritto così quello che succede al Due Palazzi: «Mentre le carceri sono considerate come i luoghi per eccellenza della grande delinquenza, nel nord Italia un’azienda rimette i detenuti sulla buona strada attraverso il lavoro. Condannati a pene lunghe per reati molto gravi, dopo anni di formazione, questi uomini si trasformano e il tasso di recidiva si riduce in modo spettacolare».


E che la recidiva si riduca in “modo spettacolare”, come perfettamente sottolinea il giornalista francese, lo conferma anche Nicola Boscoletto presidente di Officina Giotto, consorzio di due cooperative che impiegano 150 detenuti del carcere. «Quando i nostri dipendenti escono dal carcere, la loro recidiva è stimata al 2%, mentre per gli altri detenuti in Italia varia tra il 70% e il 90%».
Il lavoro così favorisce il reinserimento. «Ma», sottolinea Emanuelle Jary nel suo reportage, «non qualsiasi lavoro». E poi denuncia la questione francese. «Nel settembre 2015, una petizione firmata da 375 docenti universitari, soprattutto da specialisti di diritto e di lavoro, ricordava le regole penitenziarie europee: “L’organizzazione e i metodi di lavoro negli istituti devono assomigliare il più possibile a quelli che regolano i lavori analoghi al di fuori della prigione, per preparare i detenuti alle normali condizioni della vita lavorativa”».

«Tuttavia», continua il giornalista, «i detenuti francesi non firmano alcun contratto, non hanno il sussidio di disoccupazione, non hanno le ferie pagate, per loro non è prevista alcuna medicina del lavoro, nessun sussidio in caso di malattia, nessun diritto di sciopero né di adesione al sindacato. Sono pagati tra il 20% e il 45% del salario minimo orario. Sono stati rilevati casi di salari indecenti, che ammontavano a meno di 2 euro all’ora. Infine i detenuti non hanno alcuna garanzia per quanto riguarda il numero di ore e di giorni di lavoro mensili. La maggior parte, che non ha mai esercitato alcun mestiere prima di entrare in carcere, ne esce con una percezione negativa del lavoro e associa lavoro a umiliazione».

Nel carcere di Padova, invece, Emanuelle Jary ha incontrato Dinja, condannato all’ergastolo per due omicidi. Lui guadagna 900 euro netti al mese, ma una parte dello stipendio la invia in Uganda per supportare due organizzazioni umanitarie che si occupano di educazione dei bambini. «Prima di lavorare per Officina Giotto nessuno mi poteva avvicinare», ha raccontato Dinja, «restavo nella mia cella, i giorni non passavano mai, volevo uccidermi. All’inizio è stato molto difficile. Non avevo mai lavorato e volevo guadagnare soldi facilmente, ma i formatori e tutto il personale Giotto mimi hanno motivato e calmato. Io non capivo il motivo per cui queste persone stavano facendo questo per me che ero stato così violento e cattivo. Oggi io amo questo lavoro, è come una rinascita».

Nei laboratori Giotto oltre all’apprendimento di un mestiere, esiste il rispetto del diritto del lavoro. I 150 detenuti firmano un contratto che garantisce loro lo stesso salario rispetto all’esterno, ma anche tutti i diritti che ne derivano: le assenze per malattia, la disoccupazione, la pensione, il diritto di sciopero, che d’altra parte ben difficilmente viene rivendicato.

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.