Mondo
La festa del Centro Astalli che ringrazia i “Maestri di Misericordia”
Nella Chiesa del Gesù a Roma c’è stato l’incontro-festa organizzato dal Servizio dei Gesuiti per i rifugiati. «Li abbiamo ringraziati perché ci hanno mostrato la parte più debole e più forte dell'umanità e la vera faccia della misericordia»
“Maestri di misericordia”. Da ringraziare per quello che ci insegnano. Così sono stati salutati i rifugiati che hanno portato la loro testimonianza giovedì 14 nella Chiesa del Gesù a Roma. Incontro-festa organizzato dal Centro Astalli (sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati) in vista della 102ma Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato prevista per domenica 17.
Persone, colori, musiche e parole di varie parti del pianeta, hanno risuonato per rappresentare il mondo che fugge dalle ferite della guerra e delle fame, che crea rapporti, solidarietà, nuove relazioni e confronti.
«La comunicazione si fa tra rifugiati e immigrati». Ha detto padre Adolfo Nicolas Pachon sj, superiore generale della Compagnia di Gesù. «È così, con lo scambio, che si è fatta la civilizzazione del mondo, è cosi che il cristianesimo, l’islam e l’ ebraismo, si sono diffusi. Ed è stato un beneficio per il mondo. Per questo vorrei dirvi grazie, altrimenti rimaniamo limitati alla nostra cultura con i nostri pregiudizi e le nostre limitazioni. Ogni paese ha il pericolo di mantenere orizzonti limitati. Grazie a voi si possono aprire i cuori di ogni Paese».
Un grazie diretto ai testimoni che hanno introdotto l’incontro. Samer Afisa, dalla Siria con la sua famiglia, che racconta del «dolore e la sofferenza che abbiamo vissuto in Siria non è immaginabile. Qui si vive in un altro mondo. Tante persone vorrebbero scappare ma non hanno i mezzi… Nessuno bada ai civili innocenti che muoiono ogni giorno senza colpa. La loro unica colpa è che si sono trovati in terra di guerra senza volerlo e non hanno la possibilità di scappare. In ogni casa in Siria regna il terrore, il freddo, la fame, la paura».
E la giovanissima Maria Goretti Wangari, 13 anni, dal Kenia, dove la famiglia ha subito persecuzioni violente, e che parla per conto della madre perché conosce meglio l'italiano. «Siamo arrivati due anni fa, oggi stiamo finalmente bene. Tutti noi rifugiati, bambini e adulti sogniamo più di tutto di trovare un posto dove sentirci di nuovo accolti. Ci sentiremo davvero a casa quando anche noi avremo la possibilità di aiutare il prossimo e di poter dare un aiuto alle persone con cui viviamo. Proprio come faceva mia madre in Kenia».
Eppure «Siamo confusi e impauriti quando non indifferenti ai drammi di milioni di persone che fuggono da guerre e persecuzioni», è l’ammonimento di padre Camillo Ripamonti sj, presidente del Centro Astalli. E «tutto questo si traduce in politiche europee e nazionali non lungimiranti, atteggiamenti di chiusura e di rinuncia al dialogo. Investiamo troppo poco perché la conoscenza tra persone di culture e religioni diverse si realizzi. In Italia ci permettiamo il lusso di aspettare a cambiare leggi dichiaratamente ingiuste in attesa di tempi più convenienti e in altri Paesi dell'Unione l'urgenza della sicurezza fa invece accelerare provvedimenti restrittivi. Fintanto che non ci sentiremo tutti pellegrini, compagni di viaggio responsabili gli uni per gli altri non costruiremo e non vivremo in pace in una casa comune ricca nella diversità di ciascuno».
Quindi «questa giornata vuole essere una pausa di riflessione, quasi un fermarsi prima di varcare la soglia, quella porta d'Europa che simbolicamente sarà aperta domenica a Lampedusa».
Ecco allora che la riflessione, alta e profonda, del padre generale dei confratelli di papa Francesco, di concentra su un ribaltamento di prospettiva: siamo noi a dover dire grazie a voi, non voi a noi che vi “ospitiamo”.
«La consapevolezza dei problemi comuni che tutti abbiamo, relazioni, famiglia, posizione nella vita, lavoro, eccetera», ha detto padre Nicolàs, ci conferma che «dipendiamo gli uni dagli altri, ci fa unire nel mestiere di diventare uomini o donne. Sono gli immigrati che hanno fatto grande un Paese come gli Stati Uniti. E non per caso… E’ la mescolanza di culture e di persone. Per questo il vostro è un contributo prezioso. Per l'umanità abbiamo bisogno di tutti, perché tutti hanno una saggezza da offrire. Nel momento in cui l'umanità si pensa come un’unità, non come Paesi separati. Per questo vi voglio dire grazie, perché ci fate consapevoli di questa umanità che e patrimonio di tutti».
E ancora: «Grazie perché ci avete mostrato la parte più debole e più forte dell'umanità. Più debole perché avete vissuto la violenza, la paura, la solitudine. Ma ci avete dimostrato anche come superare la paura, prendendo rischi, e avete preso molti rischi, che non tutti noi possiamo prendere, e avete superato la solitudine aiutando gli altri, mostrando così che l'umanità è debole ma può essere anche forte. Grazie perché avete mostrato che ci sono realtà e valori più forti di quelli che abbiamo vissuto. Avete visto il pericolo in faccia e lo avete vinto».
Infine, il tema del Giubileo: «Ci avete anche mostrato la faccia della Misericordia e per questo voglio ringraziarvi. La misericordia è centrale in tutte le religioni, tanto che senza Misericordia non si può vivere. Quando una persona ha tutto può essere misericordiosa senza paura, ma quando una persona non ha più nulla, come voi, la faccia della Misericordia diventa più reale, e voi ci avete dato anche questo volta. Impariamo da voi a essere umani, nonostante tutto, avendo il mondo come orizzonte, impariamo da voi a essere persone di questo mondo. Ed è proprio il grazie quello che volevo dirvi oggi. Grazie tante».
Le voci, nelle diverse lingue madri, dei rifugiati che rinascono in una terra che ha offerto loro delle opportunità, risuonano a conclusione: Hamara, dal Mali, «per me la parola integrazione coincide con la parola apertura. Lavoro con gli italiani e da quando abbiamoci imparato a conoscerci, tra noi c'è rispetto reciproco».; Mohammad, dall'Afghanistan, «Dobbiamo impegnarci per l'affermazione di valori importanti come l'uguaglianza, la giustizia e il rispetto verso l'altro»; Beatrice, dal Congo, «alziamo insieme la voce per dire: basta! Non vogliamo più violenze contro le donne. Vogliamo il rispetto dei nostri diritti!»; Awas, dalla Somalia, «Spero che presto la situazione in Somalia cambi per poter riabbracciare la mia famiglia e vi chiedo di non abbandonare il mio popolo. Chiedete pace per la Somalia!»; Saied, dall'Etiopia, «Vorrei un giorno poter restituire all'Italia, da cittadino, l'aiuto e l'accoglienza che ho ricevuto»; Oriana, dall'Egitto, «bisogna educare le future generazioni alla compassione, al rispetto dell'altro, significa trasmettere quei valori fondanti della natura umana attraverso i quali garantir una convivenza pacifica tra le popolazioni di tutto il mondo»; Mariana, dalla Mauritania, «Vi chiedo di accogliere i rifugiati. Di non avere paura di noi. Non avrei mai voluto ed è per questo che piango e ho tanta nostalgia»; Tatiana e Maria, dall'Ucraina, «pregate per la il nostro Paese, la nostra Ucraina, perché possa tornare ad essere la casa che ricordiamo».
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