Welfare

Donne e carcere, le invisibili

Il problema principale del sistema penitenziario è ancora una volta il sovraffollamento delle carceri italiane. Ma nelle pieghe della statistica c’è uno sguardo di genere al problema di cui si parla poco. Nel corso degli ultimi dieci anni il numero delle detenute è fermo al 4%

di Mara Cinquepalmi

Il 2015 si è chiuso con 52.164 detenuti nelle carceri italiane (195 gli istituti presenti sul territorio nazionale) a fronte di 49.592 posti. Lo dice il Ministero della Giustizia che, come ogni anno, aggiorna le statistiche sugli istituti penitenziari. Lombardia, Campania e Lazio sono le prime tre regioni per numero di detenuti.

I dati dimostrano ancora una volta il sovraffollamento delle carceri italiane, ma nelle pieghe della statistica c’è uno sguardo di genere al problema di cui si parla poco. Nel corso degli ultimi dieci anni il numero delle detenute è passato da 2.804 nel 2005 a 2.107 nel 2015 (contro 52.164 uomini), ma la percentuale si attesta ormai da qualche anno attorno al 4%.

Le detenute in Italia sono suddivise in 5 Istituti penali femminili (Trani, Pozzuoli, Roma-Rebibbia, Empoli, Venezia-Giudecca) e in circa 55 sezioni femminili.

«Le donne», ha spiegato al nostro giornale Rita Bernardini, ex deputata e Presidente d’onore di Nessuno Tocchi Caino, «sono poco più del 4% della popolazione detenuta. Il carcere con più donne è la Casa circondariale Rebibbia che ne ospita 298 su una capienza regolamentare di 260; in quella di Pozzuoli le donne sono 154 a fronte di una capienza di 105, quindi è l’istituto dove si evidenzia il sovraffollamento più significativo. In questi anni sono diminuite anche le detenute con bambini (ndr, leggi i dati della nostra infografica), ma è un fenomeno che nonostante i proclami – “mai più bambini in carcere” gridava Angelino Alfano nella scorsa legislatura – governo e parlamento non sono riusciti a sradicare, pur essendo semplicissimo da risolvere. L’altra faccia della questione riguarda le donne che si fanno carico di mariti o figli detenuti in istituti a centinaia di chilometri di distanza dal nucleo familiare».

Di donne e carcere se ne è occupata di recente una ricerca sulla condizione detentiva femminile nelle carceri di Piacenza, Modena, Bologna e Forlì del Garante per le persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna in collaborazione con l’associazione Con…tatto, da anni impegnata nella Casa Circondariale di Forlì.

La vita delle donne detenute «non è un argomento che suscita particolare attenzione – ha dichiarato la Garante Desi Bruno presentando la ricerca, «neppure tra gli addetti ai lavori. La loro esiguità numerica non le ha costrette a quel trattamento inumano e degradante costituito dalla mancanza dello spazio minimo vitale. Eppure sono ingombranti, anche se la reclusione delle donne non ha una autonomia organizzativa, e vive spesso di quanto accade nel carcere maschile, dal quale riceve briciole, in termini di risorse».

Piccoli numeri che, come spiega la ricerca “La detenzione al femminile”, non consentono spesso l’attivazione e la realizzazione di attività utili al percorso di reinserimento, come corsi scolastici, percorsi di formazione professionali e attività lavorativa.

«L’idea di detenzione – spiega Lisa Di Paolo, autrice della ricerca – è una, le regole detentive non hanno una caratterizzazione di genere e le modalità di operare diversamente con donne detenute sono dovute a “libere” iniziative e sensibilità dei singoli operatori. Le donne detenute sono e si percepiscono come vittime, sono e si sentono usate, non hanno una stima e una percezione positiva di sé che le spinga a comportarsi diversamente da come hanno fatto. La donna detenuta è una donna fragile nella costruzione dell’identità personale e di genere ed è in questo che ha bisogno di essere accompagnata».

Le donne chiedono di poter organizzare iniziative, attività in autonomia, gestire il tempo libero per fare qualcosa insieme, possibilità non sempre realizzabile a seconda dei regolamenti e dell’organizzazione dell’Istituto.

«Poche – aggiunge Bernardini – sono le detenute che lavorano e quelle poche (circa il 20%) sono impegnate in lavori interni al carcere perlopiù di tipo domestico. Se il carcere si aprisse alla collettività, proprio perché le donne sono poco numerose, sarebbe più facile trovare per loro lavori qualificanti spendibili all’esterno una volta finita la reclusione e ciò si tradurrebbe in minore recidiva e quindi in maggiore sicurezza per la collettività».

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