Economia
Il crack Etruria e lo spettro del bail-in
L'intervista all'economista Marcello Esposito: «Dal 2016 a fare le spese delle crisi bancarie non saranno più solo gli investitori ma anche i semplici correntisti con più di 100mila euro. Ma sembra che nessuno se ne preoccupi»
Della Banca Popolare dell’Etruria rimangono solo i cocci. 3 miliardi di crediti cattivi di cui ben 2 sono sofferenze. Da sole valgono più di 3 volte il capitale della banca. Capitale fittizio dato che con le svalutazioni imposte il patrimonio un attimo dopo è del tutto polverizzato. Migliaia di investitori hanno visto scomparire il proprio denaro. Un terremoto che ha portato anche a un suicidio. E poi le proteste per degli investimenti che avrebbero dovuto essere sicuri ma che non lo erano e anche l'ombra di possibili truffe. Ma per l’economista Marcello Esposito, intervistato da Vita.it, all’orizzonte si profilano scenari ancora più foschi.
Che segnale è per il sistema bancario italiano questo crack?
Forse ci siamo cullati un po’ troppo nella convinzione che il sistema bancario italiano sia più sicuro e al riparo degli altri. La realtà è che quando si attraversano crisi profonde come quella che attanaglia l’Italia dal 2008 ad oggi, anche il sistema bancario più robusto finisce per subirne le conseguenze. Le sofferenze bancarie in Italia sono passate dal 3,8% del totale degli impieghi nel 2008 ad oltre il 10%. Si tratta di medie quindi ci sono realtà dove la percentuale è ancora più elevata. Questo il quadro ma il nuovo anno porterà una novità che forse solo alla luce dei recenti avvenimenti riusciamo a comprendere fino in fondo.
Quale?
Dal primo gennaio 2016 sarà pienamente operativa la cosiddetta Banking Union che porterà con sé la famigerata regola del bail-in. Ovvero il coinvolgimento nella risoluzione di un crisi bancaria non solo degli azionisti e degli obbligazionisti subordinati ma anche degli obbligazionisti senior e, nei casi più gravi, dei correntisti con depositi superiori ai 100mila euro.
Ma quel è la ragione di questa scelta?
La ragione teorica nasce dalla crisi dei debiti sovrani in Europa , quando molti stati sono dovuti intervenire per salvare banche in difficoltà e così facendo hanno compromesso i loro equilibri di finanza pubblica. Visto che siamo una Comunità questo ha messo a rischio la tenuta dell’Euro e ha portato al varo di strumenti come il fiscal compact, i prestiti agli Stati in difficoltà etc. L’idea è quindi stata quella di spostare il costo del salvataggio delle banche dai contribuenti agli azionsti, obbligazionisti e correntisti. Salvaguardando soltanto i piccoli correntisti, quelli con meno di 100 mila euro in deposito.
Sembrerebbe una scelta sensata, qual è il problema?
Il problema è che le banche svolgono una funzione peculiare, come abbiamo visto nel caso dei recenti crack. Sono un veicolo fondamentale per l’impiego dei risparmi dei cittadini. Un veicolo che nel bene e nel male deve essere considerato “sicuro”. Se così non fosse le banche non potrebbero assolvere alla propria funzione e assisteremmo, come un centinaio di anni fa, a fasi di sfiducia con corse agli sportelli e contrazioni drammatiche del credito all’economia.
Qualcosa di decisamente più drammatico della perdita di qualche risparmio come nel caso delle banche appena salvate…
Paradossalmente, per quanto possa sembrare cinico, quello che abbiamo visto non è nulla rispetto a quello che sarebbe successo se si fosse applicata la regole del bail-in alla lettera. Azionisti e obbligazionisti subordinati dovrebbero sapere che tipo di rischi stanno correndo. È successo così anche con le banche popolari spagnole salvate pochi anni fa, con l’aiuto dell’Europa, con quelle Irlandesi e con la Sns Bank olandese. Ma mai, tranne nel caso di Cipro, sono stati toccati i depositi. Dal 2016 invece è quello che succederà ogni volta che sarà necessario farlo per salvare un istituto di credito. Immaginiamo la reazione di persone che non hanno comprato un perpetual ma hanno semplicemente aperto un conto in banca e lasciata la liquidazione.
In molti, di fronte ai default di Banca Etruria & co, hanno parlato di truffa degli istituti nei confronti dei clienti. È possibile che nessuno sapesse che si trattava di investimenti a rischio?
Le regole che guidano la vendita al pubblico di strumenti finanziari, la cosiddetta Mifid, prevedono che il venditore verifichi la adeguatezza dello strumento rispetto alla capacità patrimoniale del compratore, al suo grado di conoscenza finanziaria e alla sua propensione al rischio. Le obbligazioni subordinate e le azioni, soprattutto se sono non quotate e quindi presentano problemi di liquidità e trasparenza nel prezzo, dovrebbero essere vendute solo a investitori professionali o assolutamente consapevoli dei rischi che stanno correndo. Questo però non esclude la responsabilità di chi avesse deciso, sapendo del rischio, di acquistare comunque certi prodotti nell’aspettativa di un guadagno superiore. Casi di vendite truffaldine non sono certo una rarità nel sistema bancario italiano, pensare però che si tratti di una consuetudine consolidata è sbagliato e non corrisponde al vero. Quello che bisognerà quindi verificare e se ci sono stati casi di circonvenzione, di cui si dovrà occupare la magistratura. Nell'attesa che Bankitalia, Abi e gli altri si mettano a afare il proprio dovere.
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