Welfare

Disintegrati. Fra gli immigrati a vita, odiati dalla Francia, che odiano la Francia

Provate a immaginare un mondo in cui si parli di voi solo in termini di percentuali, di integrazione, di immigrazione, di emarginazione, di criminalità, di reati, di insicurezza, di persona da "integrare". "Provate a immaginare un mondo così, voi, i sostenitori dei diritti dell’uomo!". A scriverlo è Ahmed Djouder, giovane redattore editoriale, autore nel 2007 di una libro-testimonianza “Disintegrazione”

di Marco Dotti

Poco più di trent'anni, nato in Lorena, un passaporto francese ottenuto senza vizi di forma o problemi burocratici e un lavoro rispettabile come redattore in una casa editrice. Eppure, più che le generalità, la professione o lo stato civile, il dato che subito qualifica agli occhi di un qualsiasi “francese” Ahmed Djouder è, oltre al colore della pelle, ciò che, nei primi anni Settanta, il sociologo maghrebino Abdelkebir Khatibi chiamava «la ferita del nome proprio». Nome che, nel caso di Djouder, tradisce una evidente origine algerina e, in qualche modo, costringe chi come lui se lo porta addosso a ricominciare sempre, e in ogni contesto, da zero, fra spiegazioni, sospetti, luoghi comuni e mezze verità.

«C’è sempre una gerarchia», osserva Djouder, un alto e un basso determinati da una stringente «logica economica, come al tempo delle colonie». Basta un posto di blocco o un controllo sull’autobus per capirlo: gli “altri” passano, “tu” no. Certo, scrive Ahmed Djouder, sarebbe «cool se le azioni negative non avessero conseguenze altrettanto negative».

Parliamo di Désintégration, apparso nel 2007 per le edizioni J'ai lu, libro che, dopo il successo e la considerevole eco mediatica raggiunta oltralpe, venne pubblicato anche in Italia (trad. di Ximena Rodriguez: Disintegrati. Storia corale di una generazione di immigrati, Il Saggiatore, Milano 2007).

Ma i segni della colonizzazione ( così come gli “errori” della decolonizzazione) si intravedono chiaramente, oltre il maquillage della bella politica che parla di «integrazione» e finanzia progetti «di assistenza sociale», forse per segnare ancora di più la distanza da quelle periferie e quei quartieri che, oramai, spaventano anche al solo nominarli. Eppure, ci ricorda l’autore, «integrazione» è una «parola debole» e forse anche vuota, che comunque rivela «una strategia di sicurezza camuffata».

Chi si dovrebbe integrare, si chiede Djouder, se «da due e anche quattro generazioni siamo cittadini francesi»? Con quali metodi? Se «fossimo ricchi», osserva, forse «sarebbe diverso» e sarebbe facile farsi vedere «come Catherine Deneuve o Gérard Depardieu, sempre a braccetto di algerini danarosi con cui spassarsela all’ombra dei vigneti».

Oltre la bella politica

Nella prima parte del libro, Djouder parla di contesti e conflitti vissuti da chi come lui si è trovato e si ritrova impresso il marchio di «immigrato a vita», finendo inesorabilmente col perdersi in un una sorta di limbo della cittadinanza, fatto di memorie trasmesse o ricordate solo a metà.

Figli di di immigrati, con genitori che, più che credere, continuano ad aggrapparsi «alla famiglia come un bambino fa con la sua coperta» e famiglie ancora convinte che, dal disastro della metropoli, del lavoro (il «lavoro sacrificale. Senza vie d’uscita. Senza altre possibilità. Niente scelta. disoccupazione e paura della disoccupazione sono tutt’uno») e dalle ricorrenti esclusioni che segnano la vita dentro e fuori la banlieue si possa sfuggire unicamente sognando i ritorno a casa o perdendosi in una comunità che, giorno dopo giorno, si sta inesorabilmente disgregando.

Djouder gioca e si serve, per la sua narrazione, di continue contrapposizioni, di pronomi collettivi, facendo a poco a poco scivolare, fra il più classico dei «noi» e il più scontato dei «voi», elementi quasi impercettibili di crisi: in questo modo, riesce a richiamare all’attenzione del lettore quello che è il punto centrale della sua riflessione, la disintegrazione di un universo comune e la ricerca, per quanto irrazionale, di un «contesto» che dia quanto meno la parvenza di unità e di un progetto di vita che, nella maggior parte dei casi, si rivelerà a dire poco fallimentare.

«Alcuni di noi», scrive, «hanno preso la strada della religione. Non immaginate quanto la religione sappia tenere incollati i pezzi sparsi e mantenere l’illusione della coerenza». Si potrebbe obiettare che lo stesso Djouder finisce con l’alimentare questa illusione, presentando una immagine persino troppo oleografica del conflitto che, da più coordinate e su più livelli, ha segnato socialmente e politicamente il modello francese di «ospitalità» prima e di «integrazione» poi.

Se non fosse che, abilmente, è poi lo stesso scrittore a sottrarre il problema a una rappresentazione puramente “letteraria» dello stesso.

Addomesticare l'Altro

«Uno: ci colonizzate, ci stuprate. Due: approfittate della nostra povertà per ricostruire il paese. Tre: ci rifiutate. Colonizzazione (stupro), immigrazione (deportazione) e disintegrazione (disintegrazione)».

È in questo modo, attraverso queste tappe che «la vecchia Francia è arrivata alla fine dei suoi giorni», finendo per convincersi che «gli stappi all’etica e alla morale si cancellassero da soli nel caso si dimostrasse un po’ di generosità».

Se «il problema dei nostri genitori è che non sono mai stati davvero politicizzati», e si sono presto rassegnati a una forma di abulia che li induce a ribellarsi «solo quando si avvicinano all’estinzione», quello della generazione di Djouder, nata negli anni Settanta è segnata da un vuoto ancora più radicale: «se non ci sono discorsi, non ci sono rivendicazioni è perché non ci sono parole.

Il nostro mondo è la diserzione dal linguaggio. Diserzione, deserto, deserere, separarsi, abbandonare». «Provate a immaginare un mondo in cui si parli di voi solo in termini di percentuali, di integrazione, di immigrazione,di emarginazione, di criminalità, di reati, di insicurezza… Provate a immaginare un mondo così, voi, i sostenitori dei diritti dell’uomo».

Anche per questo, conclude Djouder, «l’integrazione ci fa ridere». Se non fallisse, sarebbe probabilmente l’ultimo dei rigurgiti colonialisti: forse non il più cruento, ma di certo il più paradossale.

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